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Un anno di corsa
Annamaria Manna, Supereva – Scrittura creativa, 04.04.2006
http://www.supereva.it
Il primo romanzo di Giovanni Accardo, coordinatore e insegnante di scrittura creativa presso “Le Scimmie” la scuola di scrittura da lui fondata a Bolzano e diretta da Antonella Cilento è diventato un caso nazionale appena uscito.
Un lunghissimo e nebbioso inverno padovano e una spasmodica, rabbiosa, vana ricerca di un lavoro, Ecco quello che deve affrontare il protagonista di questo libro e con lui i suoi lettori.
La difficoltà a trovare lavoro, per questo laureato in lettere con 110 e lode e aspirante ad un dottorato di ricerca, non è l’unica da affrontare, c’è soprattutto la mancata integrazione in un ambiente avvertito ostile, terribilmente lontano dalla natìa Sicilia. Il temperamento del giovane trentenne, le sue tendenze depressive, la somatizzazione delle difficoltà, accentuano l’esperienza di destrutturazione che affronta chi lascia la propria terra, avara di opportunità di lavoro, inseguendo fiducioso la prospettiva di una formazione di qualità e di un lavoro che valorizzi e faccia fruttare gli studi compiuti.
Il protagonista non è solo in tutto ciò, gli sono compagni di pena altri studenti, fuori sede e non, i quali, però, non sono nelle stesse condizioni di urgenza che egli vive con incubi di frammentazione del corpo e disperata ricerca di onestà e di senso. Il mondo del lavoro padovano gli offre posti da venditore, fumose opportunità di guadagni stratosferici, corsi di formazione a pagamento senza alcuna certezza di impiego, oppure lavori sottopagati o pagati in nero. Il nostro “eroe” vive un profondo spaesamento, anche quando per un periodo ritorna in Sicilia oppure quando va a trovare dei compaesani a Torino, anch’essi emigrati e avvezzi ad un modesto impiego da anni, o studenti fuori corso di un’altra università del Nord.
Passato quel tragico inverno, segnato da incontri drammatici e da altri emotivamente deludenti, tramontato il sogno del dottorato, il protagonista si avvia con il rapido avanzare della bella stagione a dare una svolta alla sua permanenza nella dotta Padova.
Il romanzo è scritto in un linguaggio scorrevole che rende bene il mondo interiore del protagonista afflitto da visioni e sensazioni drammatiche e la sua sincerità e schiettezza si contrappongono al linguaggio fumoso e stereotipato dei selezionatori del personale che tanto esaspera il protagonista. Alcuni episodi comici e una vena sarcastica che emerge qua e là dalle pagine rendono il libro di Accardo facilmente comprensibile e si colloca degnamente e forse in maniera più facilmente fruibile accanto a quello di Elio Paoloni “Piramidi”, Giorgio Falco, “Pausa caffè”, Luisito Bianchi “Come un atomo sulla bilancia”, tutti editi da Sironi, nel filone del “raccontare il lavoro”, cui il 26 novembre scorso l’Andromeda Society di Fabio Fracas ha dedicato a Padova anche un convegno, coordinato da Giulio Mozzi, con l’intervento degli scrittori che negli ultimi mesi hanno scritto sul tema del lavoro. Il libro di Accardo parla, infatti, anche della ricerca di quel lavoro onesto, pagato il giusto che corrisponde al proprio percorso formativo che oggi in Italia è così difficile da trovare, specialmente per un laureato in lettere. Parla di quel lavoro per il quale tocca fare lo slalom tra mille barriere, trabocchetti e proposte truffaldine e proprio per questo si rivela di grande attualità.
Nessuna fiducia viene riposta nel mondo politico: nel romanzo un venditore porta a porta del giornale Lotta Comunista, viene lucidamente messo a tacere dal protagonista nel giro di poche incisive e memorabili battute: “… non è la sinistra che si è imborghesita, sono gli operai che coltivano sogni da padroni, gli dicevo: non vedi che appena possono si impiccano alle comode rate mensili per farsi la station wagon? Oppure si comprano il telefonino leggero leggero? Non lo senti tutto questo ansimare che cresce attorno, che pare soffi la tramontana? Sono gli operai che sognano la loro emancipazione, il loro riscatto attraverso il possesso di un’azienda, per potersi fregiare del titolo di imprenditore e dopo bestemmiare perché pagano troppe tasse? Non lo senti come si affannano per poter pagare quattro o cinque operai? Ma cosa vuoi che facciano la rivoluzione? Forse se glielo ordina Berlusconi magari per il tramite di Mike Buongiorno o di Iva Zanicchi, lo incalzavo. Ma cosa vogliono produrre?, domandava lui. Possibile che nessuno si preoccupi di cosa produrre, diceva, che nessuno si interroghi se sono merci utili, se sono dannose, se sono merci di cui c’è bisogno?E su queste domande sentivo crescere la sua utopia, una sua idea di un’umanità inesistente, una speranza di una società irrealizzabile. Glielo dissi. ”
Non a caso appena uscito è stato notato da Marino Sinibaldi che lo ha intervistato il 9 febbraio su Rai 3 nel corso della trasmissione Fahrenheit e recensito sul Mattino di Napoli da Antonella Cilento e sull’Alto Adige, il principale quotidiano della provincia di Bolzano, dal Manifesto. Accardo è stato intervistato da Radio Lombardia, da “Zeppelin”, contenitore culturale in onda su Radio2 regionale, dal Corriere dell’Alto Adige e dal Corriere dell’università e del lavoro distribuito in 100mila copie nei principali atenei del centro-sud.

Qual è l’idea di fondo che ha fatto nascere il libro?
Il desiderio di raccontare, sia pure con un tono comico, paradossale e grottesco, quanto è frustrante avere studiato per anni, con fatica, impegno e passione, e scoprire che la tua laurea non serve per trovare un lavoro e mettere a frutto quello che hai imparato. Un anno di corsa è la storia di un triplice spaesamento: esistenziale, vissuto col corpo e con la mente; geografico, visto che il protagonista gira l’Italia (da Nord a Sud e da Sud a Nord, ma anche da Est ad Ovest) alla ricerca di un lavoro qualificato e dignitoso; e infine linguistico, perché nei vari colloqui di lavoro è costretto a sentire parole vuote e stereotipate, dette con freddo automatismo e totale insensatezza, formule in latinorum (per citare Manzoni) che nascondono truffe, sfruttamenti e mortificazioni. “Non era di giorni nuovi che avevo bisogno, ma di giorni in cui finalmente ci sarebbe stata una corrispondenza certa tra i nomi e le cose [...] in cui alle parole sarebbe stato possibile far seguire degli atti, e i desideri avrebbero assunto forma reale, diventando azione, movimento.” Ecco, citando le parole del protagonista del romanzo, la sua aspirazione.

In cosa deve credere una persona che si trovi nelle condizioni oggettive del protagonista?
In cosa deve credere non lo so, ma come il protagonista di Se questo è un uomo di Primo Levi (non sembri blasfemo l’accostamento) deve difendere in ogni istante la propria umana dignità e mantenere viva e lucida la propria razionalità, evitando di farsi trasformare in scimmia ammaestrata, o in pappagallo, o in medusa

Pensi che sia sbagliato lasciare la propria terra per cercare lavoro altrove?
No, non è sbagliato: anche nella preistoria gli esseri umani si spostavano per cercare cibo. Forse è il destino dell’uomo che nasce in una società povera, ma direi anche un suo diritto, spostarsi laddove c’è lavoro, cibo, ricchezza, insomma dove è possibile vivere una vita migliore. Il problema è che solitamente, a differenza del protagonista del mio romanzo, che volontariamente sceglie di andare a studiare a Padova, in una università prestigiosa, chi emigra per lavoro lo fa perché costretto, e allora può diventare una violenza, dunque una sofferenza.

Non aver dato un nome al protagonista assume un significato particolare?
Mi sembrava che nella sua condizione di assoluta precarietà, quella precarietà che in certi momenti gli fa sentire di non essere poi diverso da un oggetto (che cosa poteva distinguermi dal tavolo, dal bicchiere o dal muro?, si domanda) e gli fa temere che il suo corpo cada a pezzi, non potesse neppure avere un nome. Così come non ha un nome il suo compagno di appartamento, che per certi versi è a lui complementare. Però c’è anche una ragione letteraria. mi risuonava nelle orecchie il “venditore di francobolli” del romanzo Il serpente di Luigi Malerba (scrittore alla cui lettura devo molto), anch’egli senza un nome.

Alla fine del libro perché raccomandi di non cercare corrispondenze tra fatti narrati e fatti reali. Sei preoccupato di essere identificato con il protagonista con quale hai in comune l’origine siciliana e la permanenza a Padova. Cosa ti distanzia da lui?
Dal protagonista mi distanziano molte cose, così come la gran parte degli episodi narrati non mi sono mai capitati per davvero. Quello che volevo dire con la nota finale è che anche i luoghi reali (Padova, Torino, la Sicilia), o i fatti veri cui si fa riferimento (la marcia della Lega per proclamare la nascita della Padania), nella scrittura vengono trasfigurati, diventano qualcosa che va oltre il protagonista, oltre la sua storia, e in cui ciascun lettore può riconoscervi qualcosa di proprio. Nonostante il romanzo sia uscito da pochi giorni, ho già ricevuto diversi messaggi, soprattutto di persone che hanno studiato a Padova (città cui sono molto affezionato, questo vorrei dirlo, e dove ho trascorso anni fondamentali per la mia vita e la mia formazione) e che mi dicono di riconoscersi o di riconoscere in qualche personaggio un amico o un conoscente. Qualcuno mi ha fatto notare come i personaggi provengano da varie regioni italiane, del Sud come del Nord, e da questo punto di vista la storia diventa davvero una storia di tutti, non solo di un siciliano emigrato al Nord, un ritratto della nostra contemporaneità.

Giovanni Accardo è nato in Sicilia nel 1962, si è laureato all’Università di Padova, con una tesi sulla narrativa di Luigi Malerba. Suoi racconti e saggi critici sono comparsi su riviste e antologie (Forum Italicum, Tempo Presente, Studi Novecenteschi, Fata Morgana). Vive a Bolzano, dove insegna materie letterarie al Liceo pedagogico e dove per alcuni anni è stato responsabile di una importante associazione culturale, con cui ha organizzato numerosi incontri con scrittori. Insieme ad Antonella Cilento ha ideato, presso l’Università Popolare delle Alpi Dolomitiche (www.upad.it/scritturacreativa ), la scuola di scrittura creativa “Le Scimmie”, di cui è tutor ed uno dei docenti. Questo è il suo primo romanzo.
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