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Lo Zar è vivo. Parola di futurista
Alessandro Zaccuri, Avvenire, 19.11.2005
www.avvenire.it/
Un romanzo d’avventura scritto dal Gruppo dei Dieci, primo tra gli altri Filippo Tommaso Marinetti: Luther Blissett ai tempi del fascismo
Il candidato della Manciuria, questa volta, non aspira alla presidenza degli Stati Uniti. Al Cremlino, però, andrebbe volentieri. Anzi, ci ritornerebbe, perché è da lì da lì lo hanno spodestato i bolscevichi, nel pieno della Rivoluzione. Ekaterinburg, l’eccidio dei Romanov e tutto quello che crediamo di sapere. Perché in realtà Nicola II, zar di tutte le Russie, è scampato all’esecuzione e trascorre il suo silenzioso esilio nell’inospitale Manciuria. A Mosca, neanche a dirlo, i comunisti ordiscono un complotto per eliminarlo definitivamente, ma per fortuna ci sono i buoni che vanno in suo soccorso.

No, non è una versione post-comunista del best seller di Richard Condon (Il candidato della Manciuria, appunto, pubblicato nel 1959, in piena guerra fredda, e portato due volte sullo schermo: nel 1962 per la regia di John Frankenheimer e nel 2004 per quella di Jonathan Demme). E non è neppure una spy-story post-moderna, a meno di non voler bruscamente retrodatare genere e definizione alla fine degli anni Venti, quando nelle librerie italiane fa la sua comparsa il rutilante Lo Zar non è morto, «grande romanzo d’avventure» (così assicura il sottotitolo) firmato dal composito Gruppo dei Dieci. Luther Blissett ai tempi del fascismo, insomma, Wu Ming e Babette Factory superati a destra.

Il primo dei Dieci, infatti, altri non è se non Filippo Tommaso Marinetti, fondatore e patrono del movimento futurista. Attorno a lui si riunisce un drappello di scrittori che vanno dal «novecentista» Massimo Bontempelli ai popolarissimi - per i criteri dell’epoca - Lucio D’Ambra e Luciano Zuccoli, passando per una serie di nomi oggi scarsamente ricordati: Antonio Beltramelli e Guido Milanesi, per esempio, Alessandro Varaldo e Cesare G. Viola, Alessandro De Stefani e Fausto M. Martini. Tutti insieme per restituire ai Romanov il loro trono, sia pure soltanto in modo fittizio. Ma anche per favorire il trionfo del regime mussoliniano, nella convinzione - come scrive lo stesso Marinetti nella prefazione originale - che spetti alla letteratura «sviluppare la maggiore potenza italianizzatrice» nei confronti degli altri Paesi. Non per niente, nel romanzo, gli agenti segreti più spericolati e affidabili si presentano con il saluto romano e con lo stesso si congedano.

Apparso per la prima volta in appendice al «Lavoro d’Italia» ed edito in volume nel 1929 con tanto di concorso a premi riservato ai lettori più attenti (c’era da individuare il vero autore dei dieci capitoli non "collettivi"), Lo Zar non è morto viene ora riproposto da Sironi su iniziativa di Giulio Mozzi, scrittore appassionato di libri d’occasione, che nell’introduzione racconta di essersi imbattuto per caso in una copia, debitamente stropicciata, del romanzo. Un esercizio di «fantapolitica del presente», lo definisce lo stesso Mozzi, una narrazione tutta giocata sul filo della convenzione e dell’esotismo, inteso quest’ultimo nella sua accezione più ampia: esotica è la Cina (nel ’29 si scriveva China), ma esotico può anche essere il Palatino a Roma, per non parlare del Vaticano, che fa da sfondo a uno dei molti colpi di scena in cui è scandita la vicenda. Uno dei personaggi-chiave, tanto per dire, è un figlio di Rasputin, divenuto sacerdote cattolico e incaricato di vigilare sul misterioso Vecchio della Manciura. Che potrebbe anche non essere lo zar, d’accordo. Ma non per questo la dinastia dei Romanov sarebbe estinta. Bisogna arrivare all’ultima pagina, con una nuova rivoluzione che infiamma Mosca, per rendersene conto. Nei romanzi - quelli veri - non si butta via niente.
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