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La letteratura contro il degrado ambientale
Antonio Turi, Paese Nuovo, 06.07.2002
Nel nuovo libro di Livio Romano il racconto di un tentativo di speculazione edilizia al sole dell’estate salentina.
E’ in libreria “Porto di mare” (pp. 154, euro 11,80, Sironi, Milano), il nuovo libro di Livio Romano. Pubblicato nella collana indicativo presente (curata da Giulio Mozzi e dedicata ad opere ispirate da fatti reali), “Porto di mare” racconta l’opposizione spontanea che un progetto di cementificazione di un tratto della costa leccese ha scatenato nel paese natale dello scrittore.
“Porto di mare” è lo sviluppo di una lettera che Livio Romano, impegnato in prima persona nel comitato di opposizione, aveva scritto per commentare quanto stava accadendo ed ha un finale aperto: proprio quando la lotta sembra raggiungere l’obiettivo di bloccare il progetto (la costruzione di un porto turistico), la ditta promotrice scatena una nuova offensiva.

A che punto è il comitato di lotta a tre mesi dalla chiusura del libro?
“Esattamente al punto di partenza. Nel senso che la società che ha promosso il progetto non si è arresa. Il Comune ha promosso una nuova conferenza di servizi (la seconda: la prima è raccontata nel libro. NDR), ma a tutt’oggi non se ne conosce ancora la data.”

In genere questo tipo di comitati, nati sullo slancio dell’indignazione del momento, si sfaldano rapidamente. Che cosa sta accadendo con il vostro?
“Il nostro sta resistendo bene. Anch’io avevo temuto che si sciogliesse, ma fortunatamente sono stato smentito. Perlomeno fino ad ora. Anche se di complicazioni ne abbiamo incontrate: per esempio le elezioni amministrative ci hanno diviso e indebolito. Rifondazione si è presentata con una lista autonoma mentre i verdi hanno appoggiato la coalizione di centro-sinistra. Solo che alla fine, anche se la sinistra ha espresso il sindaco non abbiamo nessun rappresentante in consigli comunale.”

Secondo lei il fatto che il progetto preveda solo quattro posti di lavoro, piò significare che miri solo agli utili derivati dalla costruzione della struttura, magari assicurati da finanziamenti UE, senza preoccuparsi di assicurarne lo sviluppo?
“A dire il vero che il progetto mirasse ad ottenere fondi europei è una voce che è corsa ma che nessuno ha mai potuto verificare. Non credo che sia questo l’obiettivo. Più probabile che la struttura funzioni come tante altre simili, per esempio in Sardegna, cioè solo per i due mesi estivi. Il vero problema è che se lasci che la strada della cementificazione venga aperta, dopo non controlli più niente.”

Una sua previsione sull’esito di questa battaglia?
“Io credo che la vinceremo. Credo che il progetto sia una vera violenza fatta a una zona di grande bellezza. E poi ci sono delle carenze nel materiale presentato: manca la valutazione dell’impatto ambientale. Senza non vanno da nessuna parte.”

Veniamo al libro: la prima cosa che colpisce è che pur cosciente dell’impatto ambientale del progetto presentato a Portoselvaggio, non ne faccia il fulcro della sua opposizione. Sono altre le ragioni che la spingono a questa battaglia.
“E’ vero. In seguito ho potuto verificare che l’effetto della costruzione del porto porterebbe a un vero e proprio disastro ambientale. Ma nei primi tempi della vertenza il mio punto di vista era diverso: quello che mi dava fastidio era la solita incapacità meridionale di affrontate correttamente un problema di carattere sociale. Chi ha dei progetti, come accade nel nord Europa e sempre più spesso nel nord Italia, ha il dovere di annunciarli alla comunità. Che apre un dibattito tra favorevoli e contrari e, democraticamente, decide. Da noi invece si stava cercando di fare tutto in sordina. Questo mi aveva fatto molto incavolare. Poi, ripeto, ho potuto anche verificare che le ragioni degli ambientalisti non erano di carattere massimalista.”

Per “Porto di mare” lei utilizza diverse forme letterarie: la più usata è quella giornalistica, ma ce ne sono anche altre.
“Ho sempre amato i grandi autori di inchieste giornalistiche. E penso a Camilla Cederna su tutti. Poi proprio recentemente mi ha colpito “L’abusivo”, un romanzo inchiesta sulla vicenda del giornalista Siani, in servizio al Mattino e ucciso, giovanissimo, dalla camorra. E non si può dimenticare che anche io ho svolto un’attività giornalistica proprio nel settore delle cronache sociali.”

Spesso però lo stile giornalistico lascia il campo a citazioni ed irruzioni in altri territori. Anche se poi la scrittura di “Porto di mare” non diventa mai letteraria.
“Mi sono proposto proprio questo: di non cadere nel letterario. Ho voluto inseguire una scrittura comunicativa, molto secca. Quanto alle citazioni ed agli esperimenti, possono essere una conseguenza del fatto che con questo libro io svolgo una vera e propria sterzata nel mio ruolo di autore.”

Proviamo a sintetizzarla?
“Direi che dopo avere molto lavorato sulla lingua e sulla ricerca di uno stile, adesso sto cercando un modo di costruire le storie. Trovo che quello che un po’ manca agli autori italiani sia proprio la capacità di costruire delle strutture narrative. E questa mia ricerca sarà ulteriormente approfondita nel prossimo romanzo. Ho cominciato a scriverlo l’estate scorsa, poi mi sono fermato. Adesso sto riprendendo e posso dire che risentirà di quanto fatto per “Porto di mare”.

Tornando al gioco delle citazioni e degli echi: la descrizione della società leccese che lei fa sembra richiamare “La città distratta” di Pascale. Anche se lui è un calviniano di ferro e lei ha altre ascendenze letterarie.
“Quando ho scritto “Porto di mare” non avevo letto il libro di Pascale. L’ho letto dopo. Ed io per primo mi sono accorto di queste somiglianze. Tanto che gli ho anche scritto. Lui mi ha risposto dicendo che trovava la cosa normale, visto che siamo due scrittori che lavorano con gli stessi obiettivi nello stesso momento storico.”

Ancora, a pag. 103: qui sembra di sentire Caliceti.
“Direi di sì. Ma oltre all’amicizia personale che mi lega a Caliceti, c’è il fatto che dopo aver letto “Fonderia Italghisa” o “Battito animale”, per settimane non sono riuscito a togliermi dalla testa il suo ritmo, la sua scrittura. I suoi libri mi hanno molto colpito.”

La Lomunno, autrice di un libro che come il suo parla della propria città, ha detto che dopo la pubblicazione ha temuto di dover emigrare. E lei?
“E’ presto per dirlo. Certamente ci sono dei filtri letterari nella mia opera. Anche se poi certi personaggi sono riconoscibilissimi. Ma come ha detto una mia amica che ha letto il libro in bozze, non sono ritratti cattivi. Si sente che provo affetto per i personaggi che mi circondano.”

In effetti non ci sono molti ritratti di avversari. Quasi tutti i personaggi appartengono al suo campo. E pur usando molto il registro ironico, lei raramente usa il vetriolo.
“La mancanza degli avversari è dovuta al fatto che non sono mai stati veramente visibili. Ci sono, ma non si fanno vedere. Il classico muro di gomma. Poi non uso il vetriolo perché significherebbe un coinvolgimento nella vicenda che secondo me un autore non dovrebbe avere. A me piace mantenere il distacco dalle cose che racconto. Confondere realtà e finzione in modo che il lettore non si renda conto dove finisca una cosa e dove cominci l’altra.”

Il racconto del matrimonio, del suo matrimonio, oltre che esilarante, è uno dei pochi casi in cui una critica a certe forme di vita meridionale viene fatta dall’interno. Con molto snobismo queste cose vengono raccontate come se accadessero sempre ad altri.
“Sì. Ho voluto raccontare un’esperienza che credo si riconosca come vissuta in prima persona ma che non è una cronaca di quanto accaduto. Anche in questo caso mi piacerebbe che il lettore si domandi dove è il confine realtà e finzione.”
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Testo riprodotto unicamente a scopo informativo.

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