Vuoi registrarti oppure effettuare il tuo login? Clicca qui
Home
Il catalogo completo
Libri in arrivo
Le recensioni
indicativo presente
Le recensioni
La scheda
Leggi gli articoli
Commenta il libro
Consiglia a un amico
Aggiungi al carrello
Questo e altri mondi
Galápagos
Fuori collana
Spore
I ferri del mestiere
La scienza in tasca
Semi di zucca
Elvis Riboldi
Cerca nel sito
Mailing list
Scrivici
Area utenti
English 
Acquistare online
F.A.Q. tecniche
Condizioni generali
Foreign rights
Ambrosoli, l’eroe borghese che l’Italia non ha dimenticato
Antonio Castaldo, Corriere della sera, 11.07.2016

Ucciso a Milano l’11 luglio 1979. Il ricordo del figlio Umberto: «Per lui Paese si scriveva con la maiuscola».

Il mese di luglio a Milano è sempre uguale. L’aria brucia sotto un sole martellante, ma il traffico, la gente, il ciclo continuo della metropoli in movimento è lo stesso di sempre. È estate piena, ma non è ancora tempo di vacanze. Era così Milano anche l’11 luglio del 1979, la sera in cui Giorgio Ambrosoli venne ammazzato. Il 29 gennaio di quello stesso 1979 i militanti di Prima Linea avevano ucciso a Milano il giudice Emilio Alessandrini. Il 20 marzo, a Roma, il delitto di Mino Pecorelli, giornalista depositario di molti segreti. E poi agenti di polizia e carabinieri caduti per mano del terrore. Solo un anno prima, l’8 maggio del 1978, il sequestro Moro si chiudeva con il ritrovamento del corpo dello statista in via Caetani. Sono gli anni di piombo. Ogni giorno qualcuno spara, assalta sedi politiche, uccide, minaccia, lancia bombe o progetta attentati. Ed è per questo motivo che, sebbene più volte minacciato, anche Ambrosoli girava per Milano senza scorta. Quella sera si disputava un incontro di pugilato. Ambrosoli aveva invitato nella sua casa di via Morozzo della Rocco alcuni amici per vedere il match. Finito il quale li aveva accompagnati a casa. Sceso dall’auto si sentì chiamare: «Avvocato Ambrosoli?». Ebbe il tempo di rispondere «sì». Poi William J. Arico, noto negli ambienti della «comunità italo-americana» di New York come Bill lo sterminatore, disse solo: «Scusi avvocato». E gli esplose contro 4 colpi di 357 magnum.

La battaglia solitaria

Il «Corriere della Sera» del 29 settembre 1974 titolava a pagina 6: «Da domani sportelli chiusi alla Banca Privata di Sindona». Il giorno prima Ambrosoli aveva ricevuto dal governatore della Banca d’Italia Guido Carli l’incarico di commissario liquidatore. Telefonando alla moglie Annalori per comunicarle la notizia, dirà: «Sono solo». Un solo commissario liquidatore per un fallimento da centinaia di miliardi. Non era raro a quei tempi, ma neppure comune. E soprattutto era anomalo considerando le forze in gioco. Per i cinque anni successivi Ambrosoli, che all’epoca aveva 41 anni e un’unica esperienza nel settore fallimentare, fronteggerà Michele Sindona, personaggio potente e spericolato, con alle spalle Giulio Andreotti e mezza Dc, con relazioni che spaziavano dalla finanza internazionale alla P2 di Licio Gelli, fino al gotha della mafia siciliana. «Per quattro anni e mezzo mio padre lavorò duro alla liquidazione della Banca Privata. I primi tempi, rimaneva in ufficio tutto il giorno. Lo vedevamo a casa solo i primi tempi», aggiunge Umberto Ambrosoli, avvocato a sua volta e da qualche anno anche consigliere regionale in Lombardia per il Pd. Nel 2009 ha scritto «Qualunque cosa succede», un libro che ricostruisce la vicenda del coraggioso genitore.

Le pressioni

Fin dai primi tempi tentarono di blandirlo, di convincerlo ad assumere un atteggiamento morbido nei confronti della proprietà, ovvero di Sindona. Che contro l’ evidenza legale di un crac multimiliardario, tentò in ogni modo di ottenere un accordo con la Banca d’Italia. Voleva fare salva la sua banca e con questo obiettivo mobilitò tutti i suoi contatti: da Andreotti a Gelli, dal ministro Gaetano Stammati al sottosegretario Franco Evangelisti, fino ai vertici di Bankitalia ed a Enrico Cuccia, già all’epoca influente tessitore di trame finanziarie, che finì per minacciare nei modi più espliciti. «Poi un giorno papà viene in possesso fortuitamente di un telex inviato agli uffici della banca. Scopre così l’esistenza di alcune società estere. Erano le cassaforti di Sindona. In qualità di commissario liquidatore, ne assume la guida. Un’operazione che qualcuno definì avventata, ma che gli consentì di recuperare i denari frutto di operazioni illecite che il banchiere aveva occultato». Ponendosi a capo della Fasco, Ambrosoli entra nella cabina di regia del gruppo sindoniano, svelando l’intreccio di partecipazioni e il traffico di fondi che fluttuano per l’Europa, da una banca all’altra. Sono coinvolti lo Ior di Marcinkus e la Democrazia Cristiana, esposizioni con coperture scarse o nulle e interessi girati «a nero» ai diretti, potentissimi, investitori. Ambrosoli non si ferma, non ha paura dei nomi grossi che incontra lungo la strada, la sua è una marcia decisa, senza tentennamenti. E quando circa sei mesi dopo consegna alla Banca d’Italia il primo frutto del suo lavoro, lo stato passivo della Banca Privata (che tra l’altro taglia fuori lo Ior), acclude un biglietto per il governatore: «Con i migliori sentimenti di devozione per avermi dato modo di servire in qualche modo il Paese».

Le minacce

La strategia adottata per fermare Ambrosoli è un crescendo rossiniano. Dagli ammiccamenti si passa ai messaggi intimidatori, alle visite in studio di strani personaggi, poi alle minacce a lui e ai suoi collaboratori, primo fra tutti Silvio Novembre, il maresciallo della Guardia di Finanza che gli fu vicino fino all’ultimo e che rischiò il trasferimento sul Monte Bianco a motivo della sua leale collaborazione. A maggio, due mesi prima dell’agguato, trova nel parcheggio della banca, proprio davanti alla sua Alfetta blu, una pistola rubata dalla cassaforte del suo ufficio. Ambrosoli va avanti. In contatto costante con i magistrati che indagano sul crac e protetto dalla sola Banca d’Italia, prosegue il suo lavoro. Non si ferma neppure quando la voce anonima dall’accento siculo che lui ormai amichevolmente chiama «il picciotto» per le continue chiamate, gli urla: «Lei è degno soltanto di morire come un cornuto e un bastardo». La mattinata del 11 luglio 1979, poche ore prima di spirare sulla barella di un’ambulanza con quattro proiettili in corpo, aveva terminato la lunga audizione per la rogatoria che di lì a cinque anni riporterà in Italia Sindona. L’uomo che tre gradi di giudizio riconosceranno come mandante materiale del suo omicidio.

Il ricordo del Paese

In Italia esistono 8 «vie Giorgio Ambrosoli», tre «piazza» o «largo Giorgio Ambrosoli», innumerevoli scuole, spazi universitari, biblioteche, aule di tribunali. Non si tratta dell’omaggio a un funzionario diligente. A un rispettoso servitore dello Stato. Non è solo questo. Con le targhe, le medaglie, le celebrazioni, l’Italia onora un uomo coraggioso, un uomo libero. Ambrosoli ha fatto molto più di quanto in realtà gli era umanamente chiesto. Se si fosse limitato all’ordinario, se avesse portato a termine la liquidazione senza infastidire i potenti, nessuno lo avrebbe biasimato. Anzi, per lui si sarebbero spalancate le porte di una luminosa carriera. Gherardo Colombo, il magistrato che con Giuliano Turone indagò sull’omicidio, confidò un giorno ad Umberto: «Gli sarebbe bastato un sì talmente piccolo che nessuno se ne sarebbe accorto. E se qualcuno lo avesse notato, non avrebbe potuto opporre argomenti al fatto che si era trattato di un atto dovuto». Ma come con condivisibile ammirazione ama ripetere suo figlio, Giorgio Ambrosoli era «un uomo libero, persino dalla preoccupazione per la sua stessa incolumità». «L’eroe borghese», lo aveva definito Corrado Stajano nel libro ancora oggi celebrato come esempio di giornalismo d’inchiesta. Borghese forse perché non indossava divise e non aveva bandiere se non il tricolore cui era devoto. O forse perché, in un momento di forte contrapposizione sociale, ha dimostrato di essere il migliore tra quelli come lui. Un giurista, un avvocato, un professionista «eroe». Ha fatto il suo dovere e non si è fermato neppure di fronte alla morte.

Tutti i diritti degli articoli della rassegna stampa di sironieditore.it di proprietà dei rispettivi autori/testate/siti.
Testo riprodotto unicamente a scopo informativo.

L'universo accidentale
di Alan Lightman
Galápagos
"L'idea fondamentale. Intervista a Fabio Toscano" di Carlo Silini, Corriere Ticino
"Il cervello geniale che valeva per due" di Giulia Villoresi, Il Venerdě di Repubblica
"Come funzionava la testa di Leonardo" di Giovanni Caprara, Sette, Corriere della sera

Sironi Editore è un marchio di Alpha Test s.r.l.
viale Cassala 22 - 20143 Milano
tel. 02-58.45.981 - fax 02-58.45.98.96
C.F./P.IVA: 08317940966
R.E.A. MI 2017255
Cap. Soc. € 146.093,57 int. vers.