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Dna. Dal Ruanda all'11 settembre quel test che riscrive la storia
Carlo Bonini, Repubblica, 20.10.2009

Come in un mantra della modernità, si ripete che l'impronta genetica sia la «prova perfetta». L'ordalia della scienza in grado di restituire senza ombra di dubbio un'identità perduta, dissimulata o nascosta, al suo unico e legittimo proprietario. Di riportare in equilibrio la bilancia della Giustizia penale e civile rendendola impermeabile al pregiudizio o all'illusione ottica di un quadro indiziario incerto.

In fondo, nell'affermazione c'è molta parte di vero. Eppure, nella dimestichezza con cui tribunali, medici legali, cronache, serie televisive, hanno costruito nell'ultimo quarto di secolo il mito dell'analisi del Dna, c'è tutta l'imperfezione, il coraggio e l'impostura dell'uomo. La sua fallibilità.

Alice Andreoli, giornalista scientifica della Rai, racconta ora il percorso di questa "rivoluzione" in un saggio ("Identità alla prova", Sironi editore, pp. 252, euro 17) appassionante nel suo plot narrativo, coraggioso per la laicità del punto di vista. In cui la scienza, appunto, è affare di uomini. E come tutti gli affari di uomini, è scienza "inesatta". Un lavoro tutt'altro che di nicchia. Soprattutto, tempestivo.

Nel luglio di quest'anno, a venticinque anni esatti dall'urlo incredulo con cui Alec Jeffreys, nei laboratori dell'università di Leicester (Inghilterra), annunciò a se stesso e al mondo ciò che aveva appena realizzato di aver scoperto (l'impronta di Dna e dunque la sua tracciabilità), il nostro Paese, con la ratifica del trattato di Prum sulla cooperazione tra forze di polizia nello spazio giuridico dell'Unione Europea, si è dato una banca dati nazionale del Dna. Un archivio che raccoglie e raccoglierà di qui in futuro i profili genetici di condannati, indagati e imputati. Uno strumento che ridefinisce il confine tra sicurezza e privacy. Che chiude una marcia di avvicinamento alla "nuova scienza" tra mozziconi di sigarette, sbaffi di sangue, filamenti di saliva, secrezioni di sperma.

Cominciata con la morte di Lidia Macchi (Varese, 1987), passata attraverso i fallimenti dei casi Cesaroni (Roma, 1990) e Filo della Torre (Roma, 1991), la contraddittorietà del delitto di Balsorano (1990), i successi - soltanto per ricordarne alcuni di Capaci (1992), Nassirya (2003), Provenzano (2005) e dello stupro della Caffarella (2008), che evita la galera a due innocenti cittadini romeni. «Il Dna - scrive la Andreoli - non ha tutte le risposte. Ci mostra solo quali sono le domande giuste.

È convinzione fin troppo diffusa che la molecola del Dna sia sempre stabile, non soggetta a degradazione nel tempo. Ma non è così. Non è sempre vero che l' analisi del Dna è conclusiva e definitiva. Specie nel caso di tracce miste». È accaduto e accade così che l'uomo sia riuscito a dare un'identità certa ai resti mortali dei Romanov o, a oltre due secoli dalla morte, al cuore incartapecorito di Luigi XVII di Francia. Che all'indomani dell'11 settembre, la più grande operazione di riconoscimento di cadaveri mai condotta dall'uomo, abbia consentito di dare un nome al 58 per cento delle tremila vittime delle Torri Gemelle, lavorando su reperti biologici che si misuravano in centimetri. E che gli orrori della guerra di Bosnia, dei genocidi di Ruanda ed Etiopia abbiano trovato "pace" in banche dati che hanno almeno restituito ai vivi il diritto di piangere il "profilo genetico" dei loro morti occultati in fosse comuni. Ma è accaduto anche che nel tempio dell'indagine scientifica, gli Stati Uniti, la più attendibile delle prove - l'impronta digitale - abbia trascinato nell'inchiesta per le stragi sui treni di Madrid (11 marzo 2004) un innocente avvocato di Portland, Brandon Mayfield, identificato a torto dal Fbi, come l'uomo che aveva lasciato il marchio del suo polpastrello su uno dei detonatori inesplosi in quella giornata di sangue.

Il futuro del Dna lo scriverà l'uomo. E dall'uomo dipenderà se avrà o meno sembianze minacciose. Qualcosa già si è mosso. A New York, il 5 agosto del 2003, il sindaco Michael Bloomberg ha battezzato il progetto "John Doe Indictment project". Da allora, i procuratori distrettuali possono incriminare anche un semplice dna umano repertato sulla scena del crimine ma ancora privo di nome, interrompendo così la prescrizione del reato. Insomma, una caccia all'uomo che ancora non c'è. Ma che dietro di sé ha lasciato l'impronta che lo rende unico sulla faccia della terra.

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Testo riprodotto unicamente a scopo informativo.

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