«Il pericolo è il mio mestiere», tuona, tronfio, l'eroe di turno rivendicando una sorta di esclusività nell'abitudine al rischio. In realtà, quello in oggetto, è un mestiere di molti: stuntman, broker di borsa, free cilmber, giocatori d'azzardo. Tutti, ognuno a suo modo, guardano negli occhi, sfidano e calpestano un'emozione ancestrale sviluppata proprio per tenerci lontani dai guai: la paura. In un capovolgimento dei giochi che induce alla negazione del principio di sopravvivenza, o almeno di una sopravvivenza tranquilla, taluni uomini imparano a nutrirsi costantemente di sfide, concretando ogni giorno il mantra pubblicitario del «No Limits». Ma per quale motivo? A questa domanda tenta di rispondere l'adriese Roberto Inchingolo, giornalista scientifico e autore del saggio Perché ci piace il pericolo. Adrenalina, paura, piacere (Sironi Editore, pp. 160, euro 16). Il volume, che sarà presentato stasera Bologna nell'ambito della manifestazione «Arte e scienza in piazza», è un'indagine che racconta la paura nei suoi meccanismi biologici e fisiologici senza rinunciare a digressioni di carattere culturale e sociale. Inchingolo, iniziamo dall'interrogativo fondante: cosa c'è nel pericolo che ci rende dipendenti da esso? «Nel libro analizzo il pericolo da differenti punti di vista e, ogni volta, entrano in gioco motivazioni personali fra le più diverse. Ma è possibile ricondurle tutte ad una base biologica che condividiamo con molti animali e che si lega ai meccanismi del corteggiamento e della selezione sessuale. Inconsciamente, riteniamo che la nostra temerarietà ci renda appetibili dall'altro sesso. Il potere del coraggio è associabile al potere fisico». Per questo lo sprezzo del pericolo è spesso pubblicamente esibito? «Esiste una forte componente legata all'esibizione e all'esposizione, senza dubbio. Le sfide si consumano battagliando con se stessi e con gli altri. Più difficilmente ci si pone in contrapposizione alla natura con cui, ad esempio, i praticanti di sport estremi hanno un rapporto intimo, quasi sacrale». Oltre alle motivazione biologiche, ve ne sono anche alcune di carattere culturale? «Naturalmente sì. Il rapporto con il pericolo dipende fortemente dal numero dei rischi cui si è esposti in giovane età. Se la soglia è alta si tenderà a ricercare continuamente quelle specifiche sensazioni negli anni a venire. Non a caso, quello dello stuntman è un mestiere che, nella maggior parte dei casi, si eredita». C'è poi un problema di identità, visibile soprattutto nei più giovani... «Le dinamiche di gruppo sono basilari. I ragazzi spesso si federano in gruppi o bande, legandosi alle più diverse culture metropolitane ed intraprendendo cammini non privi di ostacoli. È l'identità personale che si risolve nell'identità plurale, di gruppo, alimentandosi anche grazie al meccanismo della imitazione». L'opulenza della vita occidentale, resa possibile anche dall'ormai acquisita assenza di conflitti nei territori del Primo mondo, gioca un qualche ruolo in questi processi? «Nelle nostre vite il pericolo è tendenzialmente assente. Anche per questo lo cerchiamo con insistenza. Riflettiamo un attimo sul ruolo dei videogiochi: essi riescono – simulando, con sempre maggior perizia, situazioni fra le più disparate - a farci vivere emozioni forti senza esporci a rischi tangibili. A questo si deve buona parte di un successo partorito dal genio della creatività umana». |