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Rido dunque (forse) penso
Alessandro Pagnini, Il Sole 24 ore - Domenicale, 21.10.2012

Che cos'è l'umorismo? Disimpegno emotivo, palestra per lo spirito critico, affrancamento dell'intelletto. Ecco le tesi più consolidate
Woody Allen diceva che ridere è la cosa più divertente che si possa fare con i vestiti addosso. La consideriamo una battuta umoristica e reagiamo spontaneamente ridendo. Ma poi arriva il filosofo, e non importa che sia un seguace di Platone nemico del riso in quanto emozione che offusca l'autocontrollo razionale; chiunque sia, ci complica le cose e ci insinua dubbi.
Ci dice che non si ride solo divertendoci, come insegna il caso famoso della donna che morì dal ridere per un danno cerebrale raccontato del neurofisiologo Ramachandran, come dimostra anche l'hilaritas come manifestazione di santità in san Francesco; che non ci si diverte necessariamente ridendo, giacché il grottesco, il macabro, l'orrido e il fantastico ci divertono spesso inquietandoci; che divertimento e umorismo non sono sempre alleati, perché l'arguzia o un atteggiamento scherzoso verso le debolezze umane possono essere considerati esempi di cinismo o di misantropia, tutt'altro che divertenti. Per non commentare poi la nostra reazione "spontanea": perché qui il filosofo discuterebbe se se ne debba occupare l'estetica, o la biologia, o la sociologia, o tutt'e tre. E allora è giusto fare quello che fa Morreall Filosofia dell'umorismo. Origine, etica e virtù della risata (Sironi, Milano, pagg. 264, € 18,00): prendere atto che c'è un uso difforme di termini come "umorismo" e "divertimento", che vanno spiegati attraverso l'analisi di casi paradigmatici, rinunciando a trovare condizioni necessarie e sufficienti che li definiscano, e soprattutto non contentandoci della speculazione filosofica, ma interrogando anche la psicologia
evoluzionista, la neurofisiologia, le scienze cognitive e guardando poi insieme sia all'estetica che all'etica.
A dire il vero le scienze non hanno dato contributi così decisivi a una definizione di umorismo. Per le neuroscienze è ancora dubbia una precisa individuazione delle aree cerebrali interessate all'umorismo, e si danno esiti contraddittori quando con il brain imaging osserviamo reazioni a situazioni comiche tra cervelli normali e cervelli danneggiati. L'unica cosa che è consentito di concludere senza controversia è che il gioco sociale e l'umorismo condividono sostrati neurali comuni. L'impatto emozionale dipende per gioco e umorismo da regioni subcorticali del cervello, mentre dal punto di vista funzionale sembra accertato, come lo stesso Morreall ci dice, che il senso dello humour si sia evoluto dal momento in cui gli esseri umani hanno cominciato a trarre piacere da certi slittamenti cognitivi; all'origine probabilmente dopo un falso allarme, poi giocando con comportamenti fintamente aggressivi, come la lotta, il solletico, il darsi la caccia, e infine ripetendo e comunicando col linguaggio («il modo più semplice di giocare con i pensieri e giocare con le parole») quell'esperienza di sollievo derivata dallo "scarto" tra quello che si presuppone o quello su cui una descrizione richiama l'attenzione e la "chiusura" inaspettata. Come quando Woody Allen dice, in un classico motto di spirito, «Non solo Dio non esiste», facendoci sintonizzare con la seriosità di un discorso filosofico, e poi continua, scartando inaspettatamente sul triviale, «ma provatevi a trovare un idraulico nel fine settimana!».
La scienza dunque si limita a una spiegazione funzionale e a raccontare una genesi adattativa del riso che promuove lo sviluppo epigenetico di cervelli sociali (nell'uomo come anche nei topi). Ma
per quanto riguarda l'"essenza" dello humour, non ci dice di più di quanto dicessero Kant o Schopenhauer. È la teoria filosofica dell'"incongruenza" quella che si avvicina di più all'essenza dell'umorismo, e Kant stesso, che la fa sua da Hutcheson, accosta l'umorismo al gioco d'azzardo e al gioco di suoni (la musica) chiamandolo "gioco di pensieri". Un gioco che provoca emozioni? Morreall, controcorrente, sostiene di no. Perché se il divertimento umoristico condivide con le emozioni alcuni mutamenti fisiologici e la percezione di tali mutamenti, nelle emozioni (di paura o di rabbia, per esempio) tali mutamenti sono causati da pensieri e desideri allo scopo di provocare azioni adattative, mentre nel caso dell'umorismo pensieri, desideri e spinta a compiere azioni adattative non sono richiesti. Se rido di una melanzana bernoccoluta che associo alla testa e al naso di Nixon, non ho bisogno di credere e desiderare alcunché circa quella melanzana per provare ilarità. Kant forse era stato più analitico nell'indicare le peculiarità dell'umorismo nel "conflitto" delle nostre facoltà. I pensieri che "giocano" nell'umorismo non sono costituiti dall'attività dell'intelletto. Non sono veri pensieri e tantomeno credenze. Pensare per ridere è un paradosso intollerabile per la ragione; e qui Kant dice in termini assai interessanti che l'intelletto è in questo caso anticipato dal riso, in qualche modo tagliato fuori da quel mutamento fisiologico salutare che di per sé non sortisce nulla. E dunque non può essere l'intelletto a provar piacere «per un pensiero che in fondo non rappresenta niente», ma il corpo, che reagisce in modo salutare con un puro perdersi nel movimento delle viscere, del diaframma e dei polmoni.
Comunque, che sia disimpegno emotivo o affrancamento dall'intelletto, lo humour va eticamente e paideuticamente incoraggiato. Aiuta la razionalità e la flessibilità mentale, ci rende più sensibili alla complessità degli eventi e favorisce un atteggiamento curioso, critico e creativo per guardare alle nostre vite. E forse anche alla morte. Morreall ricorda le ultime parole di Oscar Wilde morente: «Questa carta da parati è atroce. Uno di noi due se ne deve andare». E commenta da filosofo morale: «Muori ridendo. È l'ultimo sollievo comico».
Tutti i diritti degli articoli della rassegna stampa di sironieditore.it di proprietà dei rispettivi autori/testate/siti.
Testo riprodotto unicamente a scopo informativo.

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