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Cinque corpo a corpo con l’esistenza
Giovanni Choukhadarian, Stilos, 15.10.2002
Sott’occhio: Vitaliano Trevisan
Vitaliano Trevisan ha esordito per Einaudi con un’opera che gli ha assicurato ampi consensi della critica (I quindicimila passi) e un’etichetta non delle più comode a indossarsi: quella cioè di emulo di Thomas Bernhard. Senza mettere in questione la qualifica (come sarebbe tuttavia legittimo: è possibile emulare un autore tanto singolare, O non si suggerisce piuttosto l’ipotesi del calco?), non si può negare che a un quarantenne quasi esordiente si possano augurare migliori fortune critiche. L’idea di questo Standards vol. 1 nasce forse anche da quell’accoglienza e, come tante buone idee, sviluppa un paradosso. Chi aveva letto I quindicimila passi sulla falsariga di Bernhard, trova adesso ben cinque autori di riferimento: l’uno dei quali è pure Bernhard, ma gli altri vanno da Dickens a Beckett, da Kierkegaard a Young and Heyman, coppia memorabile del miglior song americano. Trevisan dichiara, attraverso un brillante risvolto di copertina firmato da Giulio Mozzi, di confrontarsi con standards, quanto dire con temi che sono patrimonio culturale comune a tutti i musicisti-nel caso di specie, tutti i letterati. Se pure si tratta di un espediente retorico efficace, non se ne può tacere una certa benvenuta ambiguità. Prima di tutto, non tutti i brani reinterpretati da Trevisan sono poi così noti. Applicando un criterio d’interpretazione magari un po’ restrittivo, si può parlare di notorietà soltanto per il brano iniziale, cioè la magnifica canzone When I fall in love e la Christmas carol di Charles Dickens (quella che contiene il personaggio di Uncle Scrooge, l’antecedente letterario dello zio Paperone disneyano). Gli altri testi di solito riservati a lettori forti come appunto Trevisan – Accanto a una tomba di Kierkegaard, per esempio, è stato ristampato soltanto nel 1999 presso il Melangolo, con ottima curatela di Roberto Garaventa. Dando comunque per irrilevante la questione nominalistica resta, più importante, il problema del rapporto genetico tra testi originari e interpretazioni di Trevisan. Si potrebbe parlare semplicemente di letteratura al secondo grado, citare i cinque ipotesti menzionati da Mozzi in clausola di volume e da quelli derivare i relativi ipertesti. Ci vuole poco ad accorgersi che la relazione istituita da Trevisan è affatto diversa. Per non abbandonare la felice metafora musicale, i testi di Trevisan stanno ai loro antecedenti come le famose variazioni Goldberg stanno all’arietta originaria in 32 battute. In sostanza, il fondamento prosodico di questi Standards è già tutto racchiuso nell’attacco del primo racconto, When I fall in love. Un periodo dalla sintassi semplice , sorretto piuttosto da participi passati che da subordinate relative: non per questo facendo a meno, peraltro, della prima persona singolare. Trevisan si mette in gioco, ma lo fa con il timbro più distaccato e meno coinvolto possibile-contemplando, in qualche modo, la sua stessa attività di scrittore. Anche il suo vocabolario predilige l’alternanza di luce e ombra, di presenza e di assenza, di essere e non essere (ma sarà forse più preciso parlare di esistenza ed esistenza-nel-mondo: con una terminologia che a Trevisan non dev’essere estranea). Dice l’autore nel suo ultimo racconto: “Non è il mondo che dobbiamo adattare a noi, ma noi che dobbiamo adattarci al mondo “: e s’intende allora quando precisa sia l’osservazione di Giulio Mozzi che, parlando dei racconti di Trevisan, li descrive come “cinque corpo a corpo con l’esistenza”. A questo punto, il dubbio assume un connotato ontologico. Se c’è un nucleo tematico comune a questi cinque racconti, si può ben ricercare nell’inevitabile antinomia tra autenticità e inautenticità colte come uniche possibilità dell’esistenza, nella misura in cui essa può superare i limiti del quotidiano (ritorna Heidegger di Essere e tempo, che è la matrice filosofica più evidente di tutto il libro). Per Vitaliano Trevisan, Standards vol. 1 può ben considerarsi il libro della maturità. Una sfida coraggiosa, giocata sul piano scivoloso della teoria del testo, ma lontana dal bench è minimo compiacimeno tecnico. E se qualche compiacimento c’è, è di quelli sofisticati, e perciò apprezzabili. Il primo racconto, When I fall in love, non si riferisce all’immortale interpretazione di Nat King Cole o a quella, di poco successiva, dovuta a Perry Como. No, il tramite è Keith Jarrett trio di un fortunato LP dell’87: di modo che ci si trova di fronte a una scrittura non più di secondo, ma addirittura di terzo grado. Nostalgia di narratori fuori tempo massimo o abile gioco di scrittore? Ai lettori, che si immaginano molti, la non poi così ardua sentenza.
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Testo riprodotto unicamente a scopo informativo.

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