Non è un libro facile, difficile la lettura. Eppure il romanzo d'esordio di Patrizia Patelli, origini torinesi un presente a Verona e un diploma in tecniche di narrazione alla Holden, immobilizza il lettore e quasi lo costringe ad una riflessione sulla cognizione del dolore, tema totale che prima o poi si è tutti costretti ad affrontare. Gli ultimi occhi di mia madre (Sironi, 149 pagine, 15 euro) è soprattutto un romanzo sul rapporto fra figlia e madre, nel momento in cui quest'ultima è fagocitata dalla malattia e come in un mosaico della vita, la figlia tenta di riannodarne le tessere, nel disperato tentativo di non lasciare nulla al non detto e al non vissuto. Modulato con un registro narrativo introspettivo su una quotidianità lunga un'esistenza, il romanzo è il diario sofferto di due donne, una ostaggio della malattia, l'altra del ricordo. «Abbiamo colpe. Saremo assolti nel perdono - scrive l'autrice - ci deve essere lucidità nel dolore, non spavento. Abbiamo delegato, delegato troppo. Mia madre sarebbe stata più coraggiosa». La casa, la famiglia, l'ospedale, i medici e il freddo protocollo di una diagnosi senza speranza, i luoghi dell'infanzia e quelli della maturità, un padre immobilizzato dall'evoluzione del male e un rapporto figlia-madre mai largo, sempre troppo stretto. E violento. Racconta la Patelli i lati oscuri di una vita: «Mi trascinavi alla grata della ringhiera, non andavi mai fino in fondo, ma io l'ho sempre creduto possibile. Ed è stato tutto così maledettamente possibile. Poi passava, ti acquietavi, ti pentivi e non ti perdonavi. Ti sedevi sconfitta e pretendevi che io ti dicessi "ti voglio bene". Io obbedivo perché mi facevi pena. Chiedevi amore e non sapevi come». La risposta l'ha trovata la figlia, con questo romanzo: un atto d'amore. Per la madre. |