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Nel nome del padre
Andrea Purgatori, Vanity Fair, 27.05.2009
Eroi borghesi. Era un bambino quando nell'estate del 1979 veniva arrestato suo papà Giorgio, onesto avvocato alle prese con un oscuro impero. Quel giallo di Stato viene ricordato, trent'anni dopo, in un libro. Assieme a un'eredità dolorosa, ma importante.

Ci sono nefandezze che hanno inciso ferite profonde nella storia italiana, consumate nella complice indifferenza dello Stato e, talvolta, col concorso di chi lo governava. Nefandezze che hanno prodotto vittime diventate eroi per la semplice ragione di aver compiuto il proprio dovere al servizio del Paese. Gente onesta, schiva, di cui fatichiamo a ricordare il volto. Uno di questi è Giorgio Ambrosoli, avvocato.

Lo uccisero con tre colpi di 357 Magnum davanti al portone di casa, a Milano. Era la notte dell'11 luglio 1979. Come liquidatore dell'impero finanziario di Michele Sindona, il giorno dopo avrebbe dovuto sottoscrivere una dichiarazione che avrebbe precluso al bancarottiere siciliano la possibilità di cavarsela anche davanti alla giustizia americana. Il killer si chiamava William J. Aricò, detto «Billy lo sterminatore». Era stato pagato con 25 mila dollari in contanti più un bonifico di altri 90 mila su un conto in Svizzera. Centoquindicimila dollari. Tanto valeva la vita di Ambrosoli secondo i calcoli di Sindona, che aveva personalmente ingaggiato l'assassino.

Quando lo ammazzarono, Ambrosoli aveva 46 anni. Umberto, il più piccolo dei figli, appena otto. Ma partecipò lo stesso ai funerali del padre insieme alla mamma e ai suoi due fratelli, a differenza delle autorità dello Stato che non si fecero proprio vedere.

Umbero oggi è avvocato penalista. E ha scritto, a trent'anni di distanza, un libro (Qualunque cosa succeda) che racconta la storia di suo padre ai propri figli «perché non ne disperdano memoria ed esempio». Un racconto meticoloso dei fatti studiati sui faldoni del processo ai mandanti e agli esecutori di quel delitto, e delle potenti emozioni subite e vissute. Un giallo di Stato che mette in scena la Loggia P2 di Licio Gelli – con la sua capacità di infiltrarsi in tutti gli apparati dello Stato diversi anni in anticipo sullo scandalo che ne segnò la fine del 1982, anche se è tutto da dimostrare che poi sia davvero dissolta – lo Ior di Paul Marcinkus (nel punto più basso, oscuro e compromesso mai toccato dalla banca vaticana), l'Ambrosiano di Roberto Calvi, Mediobanca di Enrico Cuccia, il tutto intrecciato a una delle stagioni di maggiore influenza politica di Giulio Andreotti alla guida di uno dei suoi tanti governi. Insomma, una galleria di cattivi contrapposta a uno sparuto «manipolo» di funzionari perbene dello Stato, composto da qualche magistrato (su tutti il giudice Emilio Alessandrini) e da un paio di governatori e un direttore generale della Banca d’Italia (Carli, Saffi, Sarcinelli).

Ricostruzione e sfogo. Senza sconti. Né per il «Divo Giulio», che dalla suite all’Hotel Pierre di New York il fuggiasco Sindona continuava a considerare la sua sponda politica di riferimento per tappare la voragine di centinaia di miliardi del crac («Un presidente del Consiglio che mantiene aperto un canale di dialogo con un latitante è un esempio alternativo di come di potrebbe stare al mondo. E tra lui e mio papà non v’è dubbio che vi siano tutti gli oceani del mondo»)  né per il pavido Cuccia che preferì tacere le minacce ricevute da Sindona pur di allontanare il pericolo dalla propria famiglia, ed è un totem della finanza italiana («Poi si capisce come mai Piazzetta Cuccia sia stata fatta in cinque giorni dalla sua morte e Milano, invece, abbia impiegato quindici anni per dedicarne una a mio padre»). Esempi di una società distratta, ripiegata su se stessa, allora come oggi («Nella dimensione egoistica in cui è piombato questo Paese, è più affascinante acquisire il potere piuttosto che dire: “Sono al servizio del potere”. Centomila volte più affascinante. E le figure negative sono vissute come le uniche possibili, spesso senza nemmeno il bisogno di condividerle. Ma il potere è quello. E certi affari non possono che essere gestiti da gente come quella»).

Specchiarsi nel Paese non gli restituisce un’immagine entusiasmante («Noi siamo artefici della società nella quale viviamo. Con il voto deleghiamo, con il resto abdichiamo. Come alla riunione di condominio. Basta che ci sia la luce nelle scale, che funzioni l’ascensore. Come sta il mio vicino? Non mi interessa. Ha un problema personale? Non mi interessa. C’è qualcuno che vive nello scantinato? Non lo voglio sapere») e non lo incoraggia sforzarsi di pensare come Giorgio Ambrosoli potrebbe vivere oggi la stessa storia di trent’anni fa («Io purtroppo credo che si ritroverebbe solo, come lo è stato allora»).

Per Umberto la soluzione è identica e viene dal basso, dagli atti concreti e quotidiani che ciascuno compie ogni giorno («Mio padre era una persona che si è trovata davanti a una scelta, alta, drammatica quanto vogliamo, fatale, ma alla fin fine semplicemente una scelta: sono me stesso o non sono me stesso? Voglio contribuire, per quello che sono chiamato a fare, per la piccola parte che mi viene richiesta, al mondo nel quale vivo o no? Voglio insegnare qualcosa ai miei figli o no?»).

Ma a lui, bambino di otto anni che si sveglia in piena notte, ascolta per caso la registrazione della telefonata di minacce del killer, si chiude in un mutismo terrorizzato, poi si lascia convincere dal papà che è solo uno scherzo e invece viene risucchiato nella tragedia, resta tuttavia una forte dose di ottimismo personale («Sono stato molto fortunato nel riuscire a fare mi il tentativo di mia madre di rappresentarci ciò che di positivo c’era in questa storia») e sociale («L’Italia ha delle grandi potenzialità. Ha un sacco di giovani che hanno fame di sapere e di esempi. E, se davvero lo vuole, io sono convinto che saprà crescere»).

Il figlio più piccolo dell’Eroe borghese (Un eroe borghese è il titolo del libro di Corrado Stajano, tradotto in film da Michele Placido) non ha voglia di fare né la lezione né la morale. Semplicemente la pensa, ci ragiona e la dice: «Quello che mi ha più impressionato rileggendo le carte del processo è che si sapeva tutto e che tanti sapevano. Si sapeva di Licio Gelli, che gestiva una rete di quel genere. Si sapeva delle minacce. Ed è pazzesco che in quel clima, con quella pressione che traspare ogni giorno dalle sue lettere, mio padre abbia continuato a mettere le proprie capacità al servizio di un risultato utile per lo Stato». Già, un risultato. E come è finita?

Roberto Calvi fu trovato impiccato sotto il ponte dei Frati Neri a Londra nel 1982, «suicidato» probabilmente da un paio di killer di Cosa Nostra. William J. Aricò morì nel 1984 precipitando da un muro del carcere di New York in un tentativo di evasione mai chiarito. Sindona morì nel 1986 nel carcere di Voghera, bevendo un caffè al cianuro. Suicidio, stabilirono i giudici italiani. Enrico Cuccia è morto nel 2000, per arresto cardiaco. L’arcivescovo Paul Marcinkus, ex presidente dello Ior, è morto nel 2006 a Sun City, Usa. Licio Gelli vive nella sua villa di Arezzo e dispensa consigli da un’emittente privata. Gulio Andreotti è stato nominato senatore a vita della Repubblica italiana. Processato per concorso esterno in assciazione mafiosa, è stato assolto ma per lo stesso reato «concretamente ravvisabile fino alla primavera 1980» ha usufruito della prescrizione. Nel 1973 aveva incoronato Sindona come il «salvatore della lira».

Nel 1999, a Giorgio Ambrosoli è stata conferita la Medaglia d’oro al valor civile con la seguente motivazione: «Commissario liquidatore di un istituto di credito, benché oggetto di pressioni e minacce, assolveva l’incarico affdatogli con inflessibile rigore e costante impegno. Si espose, perciò, a sempre più gravi intimidazioni, tanto da essere barbaramente assassinato prima di poter concludere il suo mandato. Splendido esempio di altissimo senso del dovere e assoluta integrità morale spinti fino all’estremo sacrificio».

Il 25 febbraio 1975, quattro anni prima di essere ucciso, aveva scritto a sua moglie Annalori una lettera che finiva così: «Qualunque cosa succeda, comunque, tu sai che cosa devi fare e sono certo saprai fare benissimo. Dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo creduto. Abbiano coscienza dei loro doveri verso se stessi, verso la famiglia nel senso trascendente che io ho, verso il Paese, si chiami Italia o si chiami Europa. Riuscirai benissimo, ne sono certo, perché sei molto brava e i ragazzi sono uno meglio dell’altro. Sarà per te una vita dura, ma sei una ragazza talmente brava che te la caverai sempre e farai come sempre il tuo dovere, costi quello che costi».

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