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Piramidi e baveri: il primo romanzo di Paoloni
Enzo Mansueto, Corriere del Mezzogiorno - Puglia, 08.05.2002
Nella nuova collana di Sironi «Indicativo Presente» la prosa realistica e impoetica dello scrittore brindisino si produce in una storia ambientata nel mondo del marketing multilivello
Cominciamo dalla fine: «Cammino su foglie d’erba. Whitman o Hobson? Seguirò il profeta della poesia o quello della sana nutrizione? C’è contraddizione?». E’ questo il dilemma del protagonista di Piramidi - Una storia nel multilevel marketing, romanzo d’esordio (o prosa realistica) di Elio Paoloni, già convincente autore di racconti. Classe 1951, della provincia brindisina (Latiano), Paoloni lavora nell’amministrazione ospedaliera di Mesagne e si occupa, tra l’altro, di nuoto e immersioni subacquee. Nel 2001 pubblicava per Manni la raccolta di racconti Sostanze, dalla quale spiccava una prosa refrattaria alla fiction e incline, attraverso una felice ossessione tassonomica, alla decostruzione del reale. Un gusto iperrealistico, per cui la pelle della realtà, osservata col microscopio terminologico, ispirava astratte geografie, erranti, inattendibili, dubbiose. Un gusto che qui troviamo però diluito, forse per star dietro all’imperativo fotografico che informa la collana, ma che non rinuncia al dubbio. Un dubbio, innanzitutto, sullo statuto del “letterario” nella nostra società: «Seguirò il profeta della poesia o quello della sana nutrizione?». Nel libro, il profeta della sana nutrizione è il fondatore di uno dei tanti marchi proliferati sul business del multilevel marketing: sarà capitato a molti di essere contattato da un conoscente, che prospetta non solo l’acquisto di un prodotto, ma la possibilità di “testimoniare” quel prodotto ad altri e diventare così parte integrante di una grande piramide (da qui il titolo del libro) che promette auree scalate. Perché essere un impiegatuccio senza prospettive, quando chiunque (ma non i disoccupati senza voce, ma non gli appagati uomini di successo) può essere la testimonianza vivente e remunerata di Herbway? Herbway: la via dell’erba, appunto, imboccata dal protagonista. Impiegato in un’azienda ospedaliera (come l’autore...), egli coltiva interessi letterari, ma è rapito dal sogno del multivel marketing, i cui meccanismi - sarà forse per l’etica protestante che impregna le radici americane di quel miraggio - appaiono più espliciti e rispettosi dell’individuo, che non quelli marchettari del pubblico dipendente o dell’uomo di lettere. Herbway, un kit di integratori dietetici, in sostanza un frullatone per dimagrire, promette più che qualche chilo in meno: promette un’identità forte, l’appartenenza a un ipermondo, uno scopo definito. Così che il protagonista, verso la fine, salito qualche gradino della piramide,può esibire un’identità con la maiuscola: «E qui ci sono Io. Con la mia sicurezza, la mia energia e il mio entusiasmo contro una persona senza direzione». Ma è traguardo precario: identità interinale. Lui non riuscirà mai ad arrivare ai vertici della piramide, a diventare President Team. Qualcosa - il tarlo letterario? - fa di lui un uomo della Herbway senza qualità. E senza bavero. «Il bavero», sì; perché: «Non è l’abito che fa l’uomo ma il bavero». Il bavero sul quale i testimoni della Herbway appuntano la vistosa spilla, il badge che li identifica ovunque, poiché ovunque Herbway si ramifica. Ogni momento è buono per attaccare bottone (il bottone, appunto, la spilla, il marchio che prolifera, l’erba parassita): gli attimi in ascensore, la cena tra amici, la vacanza. Non c’è vacanza per chi lavora per Herbway: il lavoro è la vacanza! Non è difficile cogliere, nella grande metafora del multilevel marketing, i meccanismi stritolanti e spersonalizzanti dell’organizzazione del post-lavoro contemporaneo (flessibile, leggero, immateriale, ecologico). Ma banalizzeremmo la scrittura di Paoloni, se la riducessimo a questo livello elementare di critica sociale. Indipendentemente dallo sfondo, perfettamente inquadrato nella linea editoriale della nuova collana, ancora una volta la prosa di Paoloni è interessante per quello che non dice, per quello che non è. Vi è in lui, infatti, e vi era già nei racconti, un pudore nel (non) raccontare storie che paralizza. Non è la bella storia, chiusa, rotonda, compiuta che lo interessa, né il poetico, vago e indefinito: ma ciò che della prosa resta - o ciò che la prosa torna ad essere - una volta tolto l’alibi consolatorio della fiction. Un organismo vivo, persuasivo, autentico - impoetico, forse, ma esauriente -, un lavoro da “ragioniere”. Qualità questa (o assenza di qualità), condivisa dal nostro inetto protagonista: lui va alla convention americana (il libro si snoda tra la provincia salentina, le grandi città italiane e il sud-est statunitense) e torna a casa con tante foto, ma - errore degli errori - in nessuna di queste rappresentazioni oggettive è testimoniata la sua persona. Non appare: non è. Nessuna progressione, dunque, per lui, ma un girare a vuoto. Il libro finisce come comincia: col bavero. E una piccola sottrazione, che prelude a un nuovo inizio: «Non ho più bavero. Ho eliminato anche le due giacche che mi ero comprato. E i miei giacconi sono chiusi in alto. Non posso appenderci niente, al bavero, perché non ce l’ho».
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Testo riprodotto unicamente a scopo informativo.

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