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La luce, il fango e l'ombra
Mara Pardini, Stilos, 05.06.2006
Una storia romanticamente ligure
«Ho sempre pensato che le mie storie avrebbero avuto la geografia dei posti che ho visitato, delle dune olandesi, degli scogli spagnoli, dei mille fiordi norvegesi che hanno plasmato i miei sogni di primavera, delle isole Canarie che mi hanno ospitato parecchi inverni. Ma ogni volta che raccontavo quei posti, i personaggi mi chiedevano di tornare, minacciando di abbandonarmi, se non avessi concesso loro di rientrare in Liguria». Con queste parole, dalla costa olandese dove vive, Marino Magliani mi introduce il suo ultimo romanzo Quattro giorni per non morire. E aggiunge: «Inizialmente il libro voleva essere un plot sudamericano, una storia di profanatori, di deserti, di fughe, di gerghi che neanche gli spagnoli capiscono, di ricerche dell'immortalità tra civiltà precolombiane. Poi, durante un soggiorno invernale a Dolcedo, mentre passeggiavo a ridosso delle linee di luce e guardavo da dove Boine aveva contemplato la sua cattedrale degli ulivi, sullo spartiacque che regala la visione della Val Prino e della Valle di Lecchiore, ho capito che il "Colibrì" sarebbe tornato, non fosse altro che per quei "quattro giorni"». Ben presto, durante la lettura, mi rendo conto che il romanzo risponde pienamente alla «consegna» che l'autore si è data. C'è il protagonista Gregorio, detto “Colibrì", condannato nel fisico perché malato e nella vita sociale perché carcerato, che fugge in Liguria nella speranza di una salvezza; ci sono il paesaggio della fatica, il tempo sotto gli ulivi, il rumore del torrente che macina i pomeriggi e le sere; ci sono i sogni solitari di chi è senza donne, condannato a godere di abbracci fugaci tra pietre gialle e odori antichi. Ma c'è anche spazio per la «roba» dell'eredità, a causa della quale un fratello tenta di imbrogliare l'altro perché, in conclusione, nulla conta davvero alla fine di quel fondovalle se non un po' di benessere da conservare: la «roba» come premio alla vita. Marino Magliani delinea questo filo conduttore in Quattro giorni per non morire, riuscendo a dipanarlo con asciutta maestria sull'esempio di Francesco Biamonti (non a caso Gregorio è anche il nome del protagonista dell'Angelo di Avrigue) e degli altri scrittori liguri che volgono le spalle alle colline vuote, alle strade che non portano più da nessuna parte, alla realtà che è andata in frantumi (uno per tutti, Davide Longo). Sulla scia dell'Estate dopo Marengo, Magliani costruisce una storia romanticamente ligure, fonte inesauribile di luce, di fango, di ombra. Il mondo è divenuto una serie di zone di frontiera, da quella esotica tra la Bolivia e il Perù, a quella disossata tra l'Italia e la Francia. Non resta dunque che passare il confine, proseguire oltre. E non importa se a varcarla siano proprio i passeurdi biamontiana memoria o quegli uomini che desiderano solamente andare di là nel tentativo – disperato – di approdare alla salvezza perché, in ongi caso, nulla viene conquistato: nessun conforto, nessuna realtà. Solo brevi sogni, rovine e inquietudini, che si adagiano in luoghi-mosaico fatti di portici di paese, vicoli in salita, fondovalli senza sole privi di alcuna precisa connotazione geografica perché, ormai, qui e altrove sono la stessa afona realtà. L'unica a rimanere fissa e a dolere è l'attesa di un tempo che non vuole più tornare.
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Testo riprodotto unicamente a scopo informativo.

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