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Magliani, uno scrittore-antidoto alle brutture d'oggi
Davide Brullo, Il domenicale, 06.05.2006
Preliminare avvertimento: non ci si lasci ingannare dalla copertina – una mano su fondo nero che gratta nervosa una parete – né dal titolo, Quattro giorni per non morire: questo libro edito da Sironi (Milano 2006, pp.158, e12,90) per fortuna sua non è un libro di “genere” né tantomeno un noir per passare allegramente le giornate vacanziere – sebbene, si vedrà, l’autore sappia anche dosare con astuzia le lame della suspense. No, questo di Marino Magliani (1960), già autore de L’estate dopo Marengo (Philobiblon, Ventimiglia, IM, 2003), semmai è un romanzo “esistenziale”, sebbene, e ancora per fortuna nostra, Sartre c’entri pochissimo.

Partiamo dalla trama, lievissima: Gregorio, che sappiamo in carcere per alcuni affari illeciti combinati in Sudamerica con l’amico Leo – un intreccio tra stupefacenti e brigantaggio in reperti antichi –, torna al suo paese, nell’entroterra ligure, con un permesso di quattro giorni – ecco la ragione del titolo – per seppellire la madre. Di lì comincia una circumnavigazione mentale tra ricordi, volti, anfratti del tempo, che poi costituisce il nerbo duro del libro. Qualche parola sul traffico di Gregorio e Leo: i due compaesani che abbandonano il primordiale borgo nativo e che per questo vivono una vita da reietti, da uomini privi di passato, in verità cercano un legame tra alcune incisioni rupestri liguri e altre, pressoché un calco, sudamericane. Eccoci nella seconda zona di luce del libro, l’ancestralità. Gregorio cerca tra Bolivia e Perù i ruderi di una civiltà passata, che è poi, non troppo paradossalmente, quella da cui è fuggito. Persino la scrittura di Magliani è tutta tesa come un telo di cuoio. Le parole, radissime, servono a dire una volta per sempre le cose. C’è una sorta di immobilità negli atti, e ogni volto è composto, placido, fermo, antico, nell’ambra che lo conserverà per millenni.

La zona prima del libro, sulla vicenda dei vagabondaggi in terra americana, ha un’andatura che ricorda il primo André Malraux, quello de La via dei re (1930; peraltro anche lì, benché il panorama sia quello indocinese, si parla di un traffico di ruderi d’arte), vitale e arcaico, colmo di boscaglie, oscuro. Poi la forma delle cose va irrigidendosi, il caos avventuroso di prima si blocca, e sbocca nella sua lenta furia una disperazione atavica. Questo senso pungente dell’irrimediabilità degli eventi, di una sorte cupa che ghigna su tutti, che pulsa netto nella vita contadina ligure e soprattutto nella scrittura di Magliani, è tragicamente classico, giunge da quella grecità che per prima ha detto l’uomo. Ognuno è sottomesso al proprio inesorabile destino, di fuga o di attesa, e non c’è divinità che possa deviarne il getto.

Visto che la letteratura si nutre di altra letteratura, ci viene alle labbra il nome di Álvaro Mutis e del suo indimenticabile reietto Maqroll il Gabbiere. Specie nella sua prima produzione, quella più felice, non rattrappita in pappagallesca maniera, fu proprio il colombiano a rinnovare con versi vegetali quell’idea, assieme da eroi e pusillanimi, della “disperanza”: «Un uccello che giunge dalla sommità del cielo è il primo messaggero della disperanza. Un occhio gigantesco si apre per vigilare il passaggio degli uomini e ora la luce non è altro che un manto ubbidiente che nasconde la miseria delle cose». Eppure, dietro a lui, la matrice degli antieroi derelitti e disubbidienti di Magliani è in Joseph Conrad, da cui è mutuata anche la tattica di deviare il “genere” in dighe di terrifica moralità, di perversa intrusione nelle oscure falde dell’uomo.

Inutile sforzarsi ancora a sottolineare la palese importanza del polacco-inglese nella letteratura moderna, semmai qui ci preme segnalare se non un’aderenza una concordanza con il suo romanzo più ambizioso, Nostromo, del 1904. Vasto e icastico affresco di un paese del Centroamerica totalmente inventato da Conrad, Sulaco, il libro, troppo complesso e perciò fallimentare all’epoca – un tentativo di comprimere e superare tutte le sue “fonti” assieme: Tolstoj, Dostoevskij, Flaubert e la Bibbia – inventa la scrittura oceanica che sarà di Faulkner, e di fatto l’intera letteratura moderna sudamericana, anticipandone la nascita, con quel rosario di poverelli, di briganti sudici e di solitari cuordileone destinati a ignominiosa fine.

Si è tenuto volutamente a margine il mitizzato riferimento di Magliani – e con cordialità più volte citato nel testo, cavalleria d’altri tempi, mica come questi ultimi nostri che razziano di qua e di là e poi zitti tutti – cioè quel Francesco Biamonti, anch’egli ligure, solitaria gemma della recente narrativa italiana. Di certo Biamonti ha insegnato la portata del silenzio a Magliani, e quella specie di “pudore” nel racconto, necessario come l’acqua, che pochissimi oggi hanno in dotazione. Ma Magliani ha ali piuttosto salde e ben si libera dei propri padri – se un consiglio gli si può dare è quello di leggersi un grande francese assai letto da Biamonti, Julien Gracq, così, tanto per aggiungere pappa buona al piatto. Ne scaturisce allora una scrittura anticonvenzionale e cruda, da usare come antidoto alle brutture contemporanee, tutt’altro che “regionale”, bavaglio con cui già vollero disinnescare la potenza dell’amato Biamonti.

No, non esiste un branco di scrittori e poeti “liguri”, checché se ne possa dire, semmai la Liguria, con i suoi antri grezzi e nudi, sovranamente schietti, non fa che esplicitare la primordialità che è in ogni uomo, la sua anima – il suo chiodo – inscalfibile. Quella che, attraverso la vicenda di Gregorio, Magliani cerca di definire per sempre.
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