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Mozzi e il caso di dieci autori dimenticati
Arianna Cameli, Letture, 01.02.2006
Stpauls.it/letture
Mancava in libreria da oltre settant’anni: Lo Zar non è morto, scritto dal collettivo "Gruppo dei Dieci", è un misterioso romanzo di inizio secolo che Sironi ha ripubblicato grazie all’occhio vigile di Giulio Mozzi.
La sua storia ha inizio quando un manipolo di futuristi si incontrarono e cominciarono a scrivere il primo libro di "fantapolitica del presente", che si snoda tra Pechino, Istanbul, Losanna, Parigi, Roma. L’aspetto più interessante per noi lettori contemporanei è senz’altro l’obiettivo di scrivere a più mani, anticipatore degli esperimenti di scrittura collettiva odierni, nonché la logica parodistica nella quale è immersa la narrazione. Il romanzo fu pubblicato nel ’29, a puntate sul quotidiano Il Lavoro d’Italia, e poi in volume in una casa editrice creata ad hoc, "Edizioni dei Dieci - Sapientia --Roma", dopodiché il libro scomparve insieme al suo avventuroso gruppo letterario. Rimase sepolto così per anni, fino a che Giulio Mozzi per caso lo ritrova...

In questo caso si può parlare di scoperta archeologica di un romanzo?
«Direi che semplicemente Lo Zar non è morto è stato uno di quei tanti romanzi degli anni Venti e Trenta che sono stati dimenticati. Fra gli autori troviamo Filippo Tommaso Marinetti, un futurista, e molto spesso il futurismo viene identificato con la parte più innovativa e sperimentale, dimenticando però che esso ha compiuto diversi esperimenti di narrativa popolare. Il libro era stato dimenticato al punto che, facendo un po’ d’inchiesta tra accademici che si occupano del periodo, in pochi sapevano della sua esistenza».

È il primo romanzo collettivo nella storia della nostra letteratura italiana. Che cosa sappiamo del "Gruppo dei Dieci"?
«I Dieci, nel momento in cui firmavano il libro con questo titolo, dicevano anche chi erano, non si può parlare di pseudonimo quindi, però si presentavano come collettivo. Troviamo accanto a F. T.Marinetti, Massimo Bontempelli, Fausto Maria Martini (che forse qualcuno ricorderà per delle poesie molto melanconiche e provinciali), ci sono nomi di successo dell’epoca come Lucio D’Ambra e Zuccoli ma anche dei nomi come Viola o altri. Oggi questi signori sono così sconosciuti che per compilare uno straccio di nota biografica in fondo al volume, ho dovuto cercare per mari e per monti, tra cui uno come Alessandro Varaldo, considerato il fondatore del giallo italiano e che però nei repertori, nelle antologie e enciclopedie, più che leggere che è considerato il primo giallista italiano non si trova».

Il sottotitolo recita Grande romanzo d’avventure: possiamo inquadrarlo all’interno del filone del romanzo d’appendice? Mi viene in mente a questo proposito il nome di Carolina Invernizio ma se ne potrebbero fare tanti altri...
«Sì, e anche Emilio Salgari per certe cose. I Dieci, da grandissimi artigiani, hanno realizzato una parodia dello stesso genere del romanzo d’avventure. Quando costruivano il personaggio di Oceania World, donna bellissima e ricchissima, credo che si facessero un sacco di risate, perché è così tipicamente "tipica" che ogni volta che entra in scena si è sedotti ma anche si sghignazza. E penso che questa logica parodistica del romanzo, per cui si può parlare di postmoderno d’annata, sia ciò che lo ha salvato e che l’ha reso ancora oggi godibile».

Logica parodistica anche per quanto riguarda il contesto fascista?
«L’elemento fascista nel romanzo è talmente spudorato ed esagerato che veramente può fare nel contempo inorridire e far venire voglia di pensare che questi qui non si capisce bene se ci sono o ci fanno».

Il nucleo scatenante del romanzo è il ritrovamento, nella regione della Manciuria, di un vecchio molto somigliante allo zar Nicola II. Ci troviamo in presenza di due topòi letterari: da una parte la figura del sosia e del doppio, molto in voga nella letteratura dell’Ottocento; dall’altra il motivo contemporaneo del mito che non muore mai, come Jim Morrison e Elvis Presley.
«D’istinto protendo più per il grande personaggio che non muore mai. Penso che i nostri Dieci leggessero delle riviste e dei giornali, tipo Gente o Oggi, che sono settimanali che vivo-no di leggende. In tali giornali tutt’oggi esiste un mito di Romanov, c’è persino un cartone animato dedicato ad Alessandra Romanov. Esiste un mito, secondo il quale, qualcuno sarebbe sopravvissuto al cosiddetto eccidio di Ekaterinenburg. I nostri hanno preso questa leggenda e hanno detto: "Costruiamo il romanzo intorno a un materiale che già di per sé è popolare, un materiale che si tiene in piedi già da solo e in questo modo ci assicuriamo il successo". Io ho il sospetto che il percorso ideativo sia stato questo».

Quali sono stati gli interventi editoriali sull’originale?
«Sostanzialmente nessuno. Abbiamo fatto qualche correzione a quelli che erano degli evidenti refusi, abbiamo dotato il testo di un’introduzione e mantenuto in appendice la prefazione originaria di F. T. Marinetti. Abbiamo mantenuto nel testo anche delle cose un po’ curiose, che sono delle variazioni nella scrittura delle parole, nel senso che, il nome della cittadina di Ekaterinenburg per esempio, è scritto in cinque modi diversi, i cognomi russi che finiscono in -ov, sono scritti in -ov come si usa adesso o in -off, come si usava all’epoca per influsso francese. Abbiamo mantenuto queste variabilità di nomi e anche di alcune parole italiane, che oggi sono più fisse ma che allora avevano maggiore duttilità, perché ci sembrava che queste differenze interne nel testo, fossero un segno della diversità delle scritture all’interno del libro. Al contrario, stilisticamente e narrativamente, il libro è molto omogeneo».

In appendice troviamo dall’originale una prefazione di F. T. Marinetti, il capogruppo dei Dieci, e il bando di un concorso a premi sul romanzo. Di cosa si tratta?
«Dopo aver scritto il libro, i Dieci hanno messo in fondo una scheda dicendo: "Noi abbiamo fatto il libro tutti insieme, se poi riuscite a indovinare chi ha scritto quel capitolo, chi l’altro capitolo, compilate questa scheda mettete i nomi e speditela potete vincere mille lire! E dal V al XXX classificato un esemplare del libro stampato in carta speciale corredato delle firme autografe". Un feticismo autoriale come poche volte s’è visto al mondo. La cosa c’è sembrata il culmine di questa operazione parodistica, tant’è che l’abbiamo riprodotto fotograficamente e l’abbiamo messo in fondo».

Riapriamo il gioco allora: secondo me Marinetti ha scritto il capitolo Il villaggio di Grève-Noire. C’è una scena con il motoscafo dove viene esaltata la velocità e la macchina che mi ha fatto pensare a un’autocitazione d’autore.
«Secondo me invece è un depistaggio, l’ha scritto uno che non era Marinetti per farti pensare che era lui. Io ritengo che a lui debba essere attribuita la scena di nudo. È un evento atteso, uno comincia ad aspettarselo duecento pagine prima, ed è una scena molto elaborata, io scommetto che lui ha composto quel capitolo, perché so che gli venivano molto bene, era un po’ il suo genere».

Arianna Cameli
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Testo riprodotto unicamente a scopo informativo.

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