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Un prete in fabbrica
Mauro Fabi, Conquiste del lavoro, 17.12.2005
E' innanzi tutto la storia di un uomo. Ma è anche la storia di un prete, che nel 1968 cominciava il lavoro presso una fabbrica in provincia di Alessandria, come semplice operaio turnista addetto alla lavorazione dell'ossido di titanio. E' una storia vera. Tre anni di fabbrica e nasce un racconto, che spazia dagli appunti di un diario alle analisi sociologiche. Si tratta indubbiamente di un'opera originale, che appare ancora oggi fuori dagli schemi. Don Luisito Bianchi decise di lavorare in fabbrica per una questione di onestà, visto che per parecchi anni aveva "parlato del lavoro e della sua teologia". Ad un certo momento della sua vita don Luisito si è sentito ridicolo a parlare di spiritualità del lavoro e così decise di fare l'operaio semplice. Il vescovo gli diede un tiepido assenso e lui si emerse nella vita degli operai, non con la presunzione di rendere testimonianza, ma per fare un'esperienza in "campo aperto". Le motivazioni della sua scelta potevano essere numerose, ma aveva paura delle strumentalizzazioni, e dunque la definisce solamente come una "motivazione di onestà". E così cominciò l'avventura del prete-operaio, che non svelò dall'inizio la propria identità ai colleghi di lavoro. Si sentiva un po' strano e goffo nell'ambiente nuovo, tra i meccanismi semplici e difficili nello stesso tempo da maneggiare e gli sguardi degli altri turnisti. Ma il segreto durò poco. Fino a quando un gruppetto di operai non gli chiese se tutti i preti erano laureati. Interessante, non gli chiesero se era un prete, ma se era laureato. Forse era un modo per misurare la distanza che intercorreva tra loro e il nuovo arrivato. Forse da quest'ottica, essere un prete significava meno che essere un laureato. Non è semplice definire l'identità del prete-operaio, e il trattino non aiuta molto. Ne è consapevole anche don Luisito stesso. Tanto da dedicare pagine intere a questo dilemma identitario. "Sono certo di non essermi mai autodefinito, in questi tre anni di fabbrica, prete-operaio. Adesso che scrivo questo binomio, provo un certo disagio; voglio dire che il binomio mi dà fastidio, che non mi definisce, per niente, che non mi compete, ecco tutto". Infatti, è difficile definire questo personaggio che fa il prete e l'operaio, ma anche l'osservatore, il sociologo, lo psicologo, lo scrittore, e così via. D'altronde nel suo racconto c'è di tutto: le fatiche dell'operaio, le disquisizioni del prete, le osservazioni del sociologo, le divagazioni dello scrittore… E dunque il trattino tra la parola "prete" e "operaio" non è sufficiente, anzi impossibile metterlo tra i due termini "che uno può amare come componenti essenziali della sua vita d'uomo, ma che non può unificare". L'alienazione in fabbrica e la sofferenza di essere considerato un semplice numero lo faceva indignare, ma sembra più per gli amici di fabbrica, Amos, Giovanni, Andrea, Luca, che per se stesso. Nascono così riflessioni vicine alla poesia, ma di quella dolorosa, in cui persino i pensieri ad alta voce si perdono nel rumore assordante delle ferraglia. E l'uomo si confonde tra martelli pneumatici e fiamme ossidriche. Dalle pagine del libro prende mestamente forma una scena infernale: "Vedo i miei amici che si disperdono nel reparto, gli operai di giornata che, a gruppi, entrano ed escono, bagliori di fiamme ossidriche che prolungano a dismisura ombre di uomini, braccia d'acciaio che imbrigliano barriti di martelli pneumatici, lampadine rosse che respirano aritmicamente quando si muovono le pesanti gru, sollevatori di plance che zigzagano coi clacson impazziti, sento richiami dall'alto dei filtri, fischi dal basso, e vedo sempre uomini, dappertutto […]a sorridere, gridare, urlare e urlare, gridare, chiacchierare, sorridere…"Ma in fabbrica non esisteva unicamente la sofferenza e il disagio. Il prete-operaio ha visto anche la speranza. Magari durante una modesta festa nel grande reparto all'arrivo del nuovo anno, a mezzanotte precisa. Giovanni portava le bottiglie, Andrea il panettone, Taddeo il salame e il pane, Matteo lo spumante, e così via. Un modo per dire che l'uomo non era finito tra le macchine, non era parte di loro, che riusciva comunque a gioire, a scambiare sentimenti, vita. E' la storia di un prete. Da qui tutte le riflessioni sull'evangelizzazione, la chiesa clericale, la fede, la speranza, la carità, la spiritualità del mondo di lavoro. Ma c'è anche l'operaio. E quindi tutte le discussioni sull'orario di lavoro, le ferie, il contratto di lavoro, i rapporti con i dirigenti, la mensa, i rapporti con i colleghi, il sindacato, la busta paga, ecc. In ambedue le identità del personaggio appaiono profonde contraddizioni, forti dubbi, umane incertezze. Da una parte i dubbi sulla efficacia dell'evangelizzazione, dall'altra i dubbi sul lavoro del sindacato, da una parte i rapporti con la chiesa, dall'altra i rapporti con i capi. Un'anima irrequieta in un mondo irrequieto. Don Luisito Bianchi lo dice: la sua non è altro che una esperienza personale e che non ha nessuna verità in tasca. E qui, implicitamente, c'è anche la risposta a chi non è d'accordo su alcune sue affermazioni o posizioni. Il prete-operaio ha reso semplicemente pubblica una parte della sua vita, rendendo un servizio agli amici di fabbrica, "facendo conoscere qualche squarcio della loro vita", e alla chiesa clericale, "dichiarandole un amore che sa di gas, di fumo e di acido". Il resto si può anche discutere.
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Testo riprodotto unicamente a scopo informativo.

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