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Lezione di teologia in fabbrica
Paolo Perazzolo, Famiglia Cristiana, 23.10.2005
Torna il libro, apparso per la prima volta nel ‘72, in cui Luisito Bianchi racconta i suoi tre anni di lavoro alla Montecatini.
Luisito Bianchi è un uomo che sa sorprendere. Aveva sorpreso, e incantato tutti, due anni fa, con La messa dell’uomo disarmato, uno splendido Romanzo sulla Resistenza – come recitava il sottotitolo – che univa un’alta qualità letteraria a una profonda e intensa ricerca spirituale. Ora grazie allo stesso editore, Sironi, ci sorprende nuovamente con Come un atomo sulla bilancia, in libreria dal 20 ottobre, pubblicato per la prima volta nel ‘72.
In realtà è la vita stessa di don Luisito a sorprendere. Sacerdote dal 1950, oggi cappellano presso il monastero benedettino di Viboldone (Milano), ha speso i giorni della sua vita e la sua energia intellettuale costantemente proteso alla ricerca di un significato, di un’autenticità che non ha mai fatto sconti a niente e a nessuno, a cominciare da sé stesso. Il nuovo libro è il resoconto di un momento fondamentale di questo percorso, ovvero i tre anni trascorsi come operaio turnista addetto alla lavorazione dell’ossido di titanio alla Montecatini di Spinetta di Marengo, in provincia di Alessandria. Storia di tre anni in fabbrica, spiega l’eloquente sottotitolo: un prete in mezzo agli operai, alle prese con i problemi del lavoro, i turni, lo stipendio, il rapporto con i quadri. E in parallelo a questo filone “pratico”, si sviluppa una riflessione, contraddistinta dal corsivo, su temi esistenziali e morali.

Una questione d’onestà
“Perché è venuto in fabbrica?”, gli chiedono tutti, compagni di lavoro e dirigenti. «Forse la sola chiara motivazione che mi ha portato alla fabbrica è stata un’esigenza di onestà. M’era capitato, per molti anni, di parlare del lavoro, addirittura della sua spiritualità... So solo che, a un bel momento della mia vita, mi sono sentito talmente ridicolo a parlare di spiritualità del lavoro, un cembalo talmente fesso, che mi sono detto: vado in fabbrica, se ci riesco...».
E quei tre anni alla Montecatini, fra il ‘68 e il ‘71, significano per don Luisito anzitutto l’incontro con una serie di volti, di persone, i suoi compagni di lavoro, per i quali prova una naturale simpatia umana – sempre ricambiata – e dai quali ritiene di poter imparare. Questo diario poggia la sua forza, anche narrativa, su Giovanni, Amos, Andrea, Luca...
Lui, il prete, è lì in mezzo a loro come uomo fra gli uomini, non per dare testimonianza, ma per avere un contatto diretto con la vita, per la concretezza dell’esperienza umana – con tutta la ruvidezza e le genuità che implica – al di là delle teorie.

Una Chiesa lontana
Molte altre sono le suggestioni che, in filigrana, con garbata ironia e attraverso una piacevolissima scrittura, emergono da questo racconto. Come la costante riflessione sul rapporto fra la Chiesa, “i chierici” e il mondo reale, così centrale anche ne La messa dell’uomo disarmato e in tutto l’itinerario, umano e intellettuale, di don Luisito.
C’è amarezza nella constatazione di una distanza, di un’estraneità di linguaggi che impedisce ai due di incontrarsi e capirsi, lasciando improduttiva la Parola di Dio e, di conseguenza, impoverita la vita dell’uomo. La sorprendente scelta di un prete di buttarsi nella mischia, di sporcarsi le mani, va letto come lo sforzo di sanare quella frattura fra l’annuncio e la sua credibilità. Solo un annuncio gratuito, fine a sé stesso, può far risplendere quella Parola e avvicinare gli uomini. Come don Luisito ha provato a fare.
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Testo riprodotto unicamente a scopo informativo.

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