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E il prete scrittore andò in fabbrica
Fulvio Panzeri, Avvenire, 20.10.2005
È stato uno dei casi letterari più curiosi degli ultimi anni: dopo la Resistenza, don Luisito Bianchi racconta il mondo degli operai
Luisito Bianchi, cappellano presso il monastero benedettino di Viboldone, a pochi passi da Milano, dopo essere stato insegnante e traduttore, ma anche operaio, benzinaio e inserviente d’ospedale, con un romanzo, La messa dell’uomo disarmato, dapprima circolato in dattiloscritto e poi pubblicato dall’editore Sironi nel 2003, è diventato un vero caso letterario, un punto di riferimento per chi ama la letteratura, per i critici e per i lettori che hanno trovato in questo suo grande romanzo sulla Resistenza un seme di verità, una parola vera e necessaria. Dice, ora, con voce calmissima: «O si cerca o si è cercati. Si resta intontiti da questa presenza di Dio che si fa carne e dell’uomo che manifesta Dio. Mi piace dare quello che ho ricevuto, questo entrare nella tradizione. Ecco dare e ricevere, trasmettere gratis». E’ questo il segreto della sua scrittura, la sua forza di scrittore, che si rinnova ora che si appresta a ritornare in libreria, sempre pubblicato da Sironi, con la nuova edizione di Come un atomo sulla bilancia (pagine 284, euro 14,50), la storia di tre anni in fabbrica, quelli a cavallo tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta. Erano gli anni della contestazione, delle lotte sindacali, dell’attenzione sociologica e spesso strumentale alla condizione operaia e alla vita della fabbrica. Erano gli anni dei preti operai, che sceglievano, anche come forma di contestazione, il duro lavoro, per condividere problemi e aspettative del proletariato. A Luisito Bianchi non piace essere definito "prete operaio" in questi termini. Ci dice: «Per me è stata una scelta ecclesiale, di libertà, che aveva avuto l’approvazione del mio vescovo. Dopo essere stato assistente delle Acli, ritornai in diocesi e per un desiderio di onestà, dopo tanti anni in cui avevo parlato del lavoro e della sua teologia, chiesi di lavorare in fabbrica. Il vescovo disse di sì e per me è stata una grande grazia». Così il 5 febbraio del 1968 don Luisito inizia il lavoro presso la Montecatini di Spinetta Marengo, in provincia di Alessandria, come operaio turnista addetto alla lavorazione dell’ossido di titanio. Sono stati tre anni cruciali nella vita del sacerdote, «tre anni che reputavo allora e, a maggior ragione, oggi la cerniera delle due ante della mia vita, del prima e del dopo». Don Luisito decide di raccontarli, in questo libro, scritto di getto, in due mesi, nel 1970, dopo aver lasciato il 15 ottobre la fabbrica, «quasi un’elaborazione rappacificata delle 1500 pagine di diario, spesso tumultuose e ossessivamente monotematiche» che aveva tenuto durante quel periodo. Nel 1972 il libro esce da Morcelliana e ora, a trentacinque anni di distanza, ritorna in libreria. E’ don Luisito stesso ad interrogarsi sul perché di questa riproposta, affidandosi appunto ai suoi fedeli lettori: «La storia di un prete che raccontava I suoi tre anni di fabbrica, come operaio turnista - un impatto dunque con una realtà che esulava dal mondo clericale cui il prete era legato – poteva allora interessare. Ma oggi, che senso ha ripresentare quella lontana esperienza quando le situazioni attuali, sia sociologiche che religiose, sono ben diverse? O forse permane l’attualità di certi interrogativi che non solo non hanno avuto risposta ma si sono anche acutizzati?». Certamente un senso nel rileggere oggi il racconto di quella esperienza lo si ritrova in quella sete di verità che accompagna la scrittura di don Luisito, in quel suo volersi tenere alla larga da implicazioni sociologiche, ma nel voler solo e semplicemente raccontare: «In questo libro è narrato quello che è capitato a un prete, coi suoi limiti e la sua sensibilità, cui il pensiero di fare della sociologia, della teologia o della pastorale era tanto lontano quanto quello di essere lui stesso un sociologo o un teologo o un operatore pastorale». Don Luisito racconta la sua vita e quella dei suoi amici, che sono anche i veri protagonisti del libro, figure forti e potenti con I loro nomi biblici, con la loro disponibilità al Vangelo: Andrea, Matteo, Giovanni, Giacomo, Taddeo, Filippo, Tommaso. Sono presenze di grande ricchezza umana, alle prese con gli orari, lo stipendio, gli aumenti, I problemi sindacali, il gas che si respira in fabbrica. Le sue parole sono anche un segno di fedeltà alla ricchezza ricevuta dall’esperienza in fabbrica. Nel libro scrive: «Lo so che le parole non sono frutti, tanto meno quelle scritte. Vorrò, almeno, che siano vere. Una parola vera, anche se non è un frutto, è pur sempre un tentative di non tradire la verità. Non ho altro che questa da offrire ai miei amici per assicurarli che quello che m’hanno dato cercherò di non sciuparlo». E oggi don Luisito aggiunge: «Questo libro potrebbe essere intitolato anche semplicemente Grazie». Da questa «esperienza di vita racchiusa tutta nell’ambito personale», come la definisce l’autore, emerge infatti un grande tema, tutto da riscoprire e da riflettere, quello della gratuità, come deriva dall’insegnamento di San Paolo: «La credibilità che debbo ricercare nel momento dell’evangelizzazione è questo mettermi sotto il giudizio dell’Evangelo: è la stessa evangelizzazione nella sua dimensione di gratuità che mi evangelizza, la credibilità ricercata nella gratuità che mi fa scoprire la credibilità dell’Evangelo, come espressione dell’amore gratuito di Dio».
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