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Intervista all’Autore: Leonardo Colombati
Intercom ; King Lear, 16.05.2005
Intercom.com
1. Dovremmo forse iniziare con una domanda semplice prima di passare a quelle difficili veramente. Ma non è detto che sia facile rispondere a questa prima domanda che ora ti pongo: chi è Leonardo Colombati, l’Autore di “Perceber”?

Sono nato trentacinque anni fa a Roma, dove ho sempre vissuto, ad eccezione di due anni trascorsi a Londra). Mi sono sposato nel 1999 con Gaia ed ho due figli, Margherita (4 anni) e Matteo (2 anni). Per guadagnarmi da vivere vendo cavi in fibra ottica per conto di un’azienda inglese. Durante la mia non troppo significativa esistenza sono progressivamente ingrassato fino a raggiungere un “peso-forma” che lo sarebbe davvero se fossi grosso come Primo Carnera; e ho fatto in tempo a godermi due scudetti della Roma e una lunghissima serie di cocenti delusioni subite allo Stadio Olimpico, in Tribuna Tevere, dove sono abbonato dal 1974.

2. Ormai tutti sanno che hai impiegato ben dieci anni per scrivere “Perceber”. Cosa ha significato per te impiegare così tanto tempo dietro alla stesura d’un romanzo? Quanto ti ha impegnato e quante risorse hai dovuto compulsare per arrivare alla stesura finale?

Per il primo libro hai vent’anni a disposizione; per il secondo, sei mesi. Perceber è nato quando, a dieci anni, mio padre mi regalò il Tom Jones di Fielding in una vecchia edizione della Garzanti, con la copertina di tela beige e un leone rampante nell’angolo in basso a destra. Lette le prime sessanta pagine, decisi che volevo fare lo scrittore. Fino ai miei quindici anni, non avevo nessuno con cui condividere la mia passione per la letteratura. Poi, un’estate, conobbi un ragazzo di Milano: Bernardino. Era un incrocio tra il Bruce Springsteen ritratto sulla copertina di Darkness on the edge of town e Joe Strummer dei Clash. Andava in giro in bicicletta con un cappotto nero, leggero, e quando le falde prendevano vento sembrava un pipistrello. Non solo gli piacevano i libri, ma sembrava averli letti già tutti. È stata la prima persona con cui ho potuto parlare di letteratura, e ancora adesso accolgo qualsiasi suo giudizio come il Vangelo. In quelle estati trascorse in Versilia s’andava perfezionando in me la scissione che sarebbe diventata una cifra definitiva del mio carattere. Con Bernardino discutevo di Borges sotto l’ombrellone, stando attendo a non abbronzarmi perché mi sembrava che il pallore potesse bastare a donarmi un’aria da “intellettuale”. Poi, la sera, cantavo Roma capoccia a squarciagola in un piano-bar. Questo per dirti che, ad esempio, ora che è uscito Perceber, la maggior parte della gente che mi conosce non riesce a far coincidere la mia immagine da cazzone con quella di uno che per più di dieci anni s’è messo davanti alla macchina da scrivere e al computer. “Ma quando l’hai scritto?”, mi chiedono. E capisco che non lo so nemmeno io.

3. Forse idealmente, i personaggi principali di “Perceber” sono tre, una Trinità: Giovanni Migliore, Luigi Dodo, Antonio Baldini. Tutti e tre hanno le loro proprie manie e pulsioni, par quasi appartengano a una stessa identità, come se - solo temporaneamente - vivessero dentro tre corpi distinti, ma in attesa di “ricongiungersi”. Marionette del Divino, del Destino? o, forse, solo del Caso?

Hai fatto centro. In effetti, i tre personaggi del libro – diversissimi fra loro per età, istruzione, orientamenti sessuali, religione – formano un Uno. Quando scrivi una storia, succede che ad un certo punto ti senti un dio. Per i personaggi che hai inventato vale il dogma del libero arbitrio: sono loro a decidere delle proprie azioni, anche se vincolati dalla “predestinazione”. In questo senso, lo scrittore è più devoto ad Erasmo che non al De servo arbitrio di Lutero. A me è capitato che, durante la stesura del romanzo, i tre protagonisti scegliessero da sé il modo in cui arrivare al proprio destino (che avevo stabilito d’imperio). E tutti e tre hanno deciso di utilizzare alcuni aspetti del mio carattere e del mio inconscio. Insomma, mi hanno fregato!

4. Leggendo “Perceber”, almeno io, ho ravvisato una scrittura fortemente adrenalinica, a tratti allucinata ma severa. Ho trovato nelle pagine di “Perceber” un po’ della scrittura lisergica-filosofica tipica di Salman Rushdie, ma anche la magia di “Tutto il ferro della torre Eiffel” di Michele Mari, nonché quella di Julio Cortázar.

Non ho letto il libro di Mari. Cortàzaar e Rushdie mi piacciono ma non li ho “avuti davanti” mentre scrivevo. Al di là delle influenze, ciò che volevo fare era un libro in cui ogni singola pagina bastasse per se stessa. Come raggiungere lo scopo? Leggevo da più parti che il “segreto” è quello di trovare una voce. Io ho preso alla lettera, ottusamente, il suggerimento, e mi sono messo scrivere una prosa che immaginavo venisse declamata da Vittorio Gassman, con quel suo tono da vecchio attore shakespeariano sotto il quale s’intravede il gioco voluto della parodia. Il risultato, forse, è una scrittura dai registri alti – non parlo di qualità, intendiamoci: ma proprio di emissione vocale.

5. Roma, 6 luglio 2000, mezzogiorno. Tutto ha inizio in questo fatidico giorno, ma forse è più giusto dire che tutto ha avuto inizio molto prima, quando il mondo ancora non era. C’è tutta una complessa cosmogonia in gioco. Potresti dare qualche delucidazione in merito ai lettori che già stanno affrontando la lettura del tuo romanzo - ma anche a quelli che, sicuramente, leggeranno questo romanzo difficile, raro come non se ne leggevano da almeno quindici anni?

Nella Premessa al romanzo, avviso il lettore che la struttura di Perceber mi è stata indispensabile per scrivere, ma non lo è per chi voglia cimentarvisi. Il mio intento originario era quello di comporre un Inferno in cui al posto delle bolgie e dei gironi ci fossero i rioni e i quartieri di Roma. Sopra questa mappa, mi è venuto naturale sovrapporre una “griglia” mutuata dalla Cabala ebraica. La cosmogonia della mistica ebraica è, secondo me, uno dei vertici dell’umana intelligenza. È un sistema bellissimo. Dio, che è tutto, vuole creare. Per farlo deve autolimitarsi per lasciar spazio alla sua creazione. Questa è la fase che Isaac Luria chiama di contrazione. Ed in effetti si può immaginare Dio che trattiene il respiro, tira indentro la pancia, e fa un vuoto. Quando, alla fine, espira, emana delle luci, che progressivamente concorrono a formare il mondo archetipo; un mondo che è emanazione degli attributi divini. Queste luci vengono raccolte in dieci vasi, che s’immaginano disposti in modo che disegnino una figura umana: l’Adamo cosmico. Un Mondo e un Uomo siffatti sarebbero perfetti. Purtroppo accadde che i recipienti dal quarto al nono non resistettero alla sollecitazione della luce di Dio e si ruppero. Parte di quella luce tornò alla Fonte, ma un’altra parte precipitò assieme ai cocci, generando la materia grossolana e il male. Dopo questo evento drammatico, Dio fece un secondo tentativo di irradiare i suoi attributi fuori da sé e ci riuscì (anche se ormai il male era ineludibile). Restava da costruire la realtà naturale. Per far ciò, Dio si serve delle ventidue lettere dell’alfabeto ebraico. In effetti, il Genesi inizia così: “E Dio disse: ‘Sia la luce’. E la luce fu”. La parola luce esisteva prima di ciò che rappresentava. Ma la faccio breve: se fossi riuscito a sovrapporre la mappa di Roma allo schema cabalistico, avrei fatto di Roma un Mondo, e un Uomo. L’avrei fatta vivere. Così ci ho provato. Niente di particolarmente originale: più o meno la stessa cosa l’ha tentata Joyce nell’Ulisse.

6. E’ stato detto (ipotizzato) che la tua scrittura è quella d’un moderno Pynchon italiano. In parte, io penso sia vero. Tuttavia credo - forse cadendo in errore - che c’è anche una forte componente à la Cervantes, ovvero l’intuizione per un Rinascimento culturale abilmente inquinato da inquietudini barocche, tessendo una parodia epico-cavalleresca assai moderna. C’è del vero in questa mia osservazione? e sì, perché?

Cervantes e Rabelais, direi. Ma non vorrei dare l’impressione di essere infastidito dal costante riferimento a Pynchon. Io sono un fan di Pynchon, me lo sono letto e riletto tutto, sono andato alla ricerca pure degli aspetti più trash del suo mito misterioso (dove vive, che faccia ha, che musica ascolta). Se non avessi letto L’arcobaleno della gravità e Mason & Dixon, non avrei mai scritto Perceber; almeno, non nel modo in cui l’ho fatto.

7. “Perceber è un chiassoso “romanzo eroicomico sul Nulla” in cui si combinano la Cabala e la pornografia, il rock e il Caffè-concerto, la psicanalisi e l’idealismo berkeleyano, il feng-shui e l’architettura futurista, la cronaca e il Mito.” Non è poco, è molto invece. E un po’ spaventa. Qual è la tua opinione in merito? E potresti spiegarci che cosa significa “romanzo eroicomico sul Nulla”?

Bisognerebbe dire “poema eroicomico in prosa” e non “romanzo eroicomico”. Per Fielding, il novel (inteso come romanzo realistico) deve rifarsi non solo al modello di Cervantes, ma spingersi indietro nel tempo fino alla presunta epica comica di Omero. Fielding è un genio: è al tempo stesso il codificatore del romanzo moderno e l’artefice del suo superamento. Il Tom Jones è al tempo stesso “novel”, in quanto racconto di accadimenti reali, di personaggi verosimili, di psicologie; e “romance” medievale, in cui l’intreccio schiaccia i personaggi, li giostra come marionette; e ancora “romanzo postmoderno” nelle parti in cui Fielding ripone per un poco il plot nel cassetto e inizia a filosofeggiare, a farci la morale, ma con la leggerezza del capocomico che chiude per un attimo il sipario, si presenta sul proscenio e ci strizza l’occhio. Ecco: apponendo il sottotitolo “romanzo eroicomico”, io pensavo a questo. Ed ho aggiunto: “Sul Nulla”. In effetti, a Perceber – questa cittadina spagnola inesistente dove tutti parlano senza poter riprendere fiato – sono banditi il bianco, il silenzio e lo zero, in quanto simboli del Nulla. Nulla ci vieta di postulare che Dio non abbia fatto l’Universo, ma l’abbia semplicemente sognato. I cabalisti spagnoli, come ho ricordato prima, insinuano che l’abbia più verosimilmente nominato. Prova ne sarebbe che l’Universo è tutto ed esclusivamente in ciò che possiamo “definire” (In Le parole e le cose Michel Foucault aggiunge che “il mondo può paragonarsi ad un uomo che parla”). Se dobbiamo arrenderci al fatto che non esiste niente altro se non ciò che ha un nome, questo mondo di segni ha i suoi “buchi neri”, delle aperture verso l’infinito; forse proprio il silenzio, il bianco, lo zero.

8. In “Perceber”, anche Mozart. La musica è anche la tua ossessione? come per Luigi Dodo, i cui sogni sono disturbati dal ritratto di due bambine, gemelle ritratte sulla copertina d’un famoso disco rock?

Credo di sapere più di musica che di letteratura. Amo la musica e per alcuni artisti ho sviluppato una forma di venerazione di tipo ossessivo. Springsteen è il mio dio. L’ho visto dal vivo per la prima volta che avevo quindici anni, a S. Siro. Per andare a Milano dovetti mentire ai miei genitori: gli dissi che dopo la scuola sarei andato a studiare da un mio compagno di classe e che avrei dormito da lui. E invece furono ore e ore di Intercity, di attesa ai cancelli e di pura gioia. A quel concerto ne sarebbero seguiti altri undici, e fra poco, il 4 e il 6 giugno, sarò di nuovo a Bologna e a Roma a vederlo. Sono riuscito pure a conoscerlo e a stringergli la mano. Era il 1993. Ero a un suo concerto allo Stadio Flaminio di Roma, con il mio amico Niccolò, anche lui springsteeniano di ferro. Dopo lo show, andammo all’Hotel Majestic, dove sapevamo che Bruce avrebbe pernottato. Restammo lì fuori, in auto, col motore acceso, finché lui e la band non uscirono di corsa tuffandosi dentro un pulmino. Li seguimmo fino a piazza Nicosia, dove li vedemmo entrare al ristorante “I Due Ladroni” (se l’epiteto si riferisce ai proprietari del locale, è del tutto giustificato visti i prezzi). Nico ed io entrammo e ci diedero un tavolo accanto a quello di Springsteen. Con le mie orecchie sentii l’autore di Thunder Road ordinare al cameriere: “Amatriciana for me”. Quanto a noi, con un totale di ventiduemila lire nei nostri portafogli, chiedemmo una bottiglia d’acqua minerale e due insalate. Attaccammo bottone, viscidamente, con il nuovo chitarrista di Bruce, che ci sedeva accanto. Il culo aveva voluto che fosse stato il chitarrista dei Lone Justice, un gruppo che avevamo visto aprire per gli U2 nel 1987. Glielo dicemmo e lui impazzì di gioia per essere stato riconosciuto. Fu così che riuscimmo a scambiare un paio di battute con il Boss. Quando uscimmo, poi, lo bloccammo per quattro chiacchiere. Il tutto durò cinque minuti. Alla fine lo salutammo, ci voltammo verso l’auto e ci sentimmo gridare da quella voce: “Ehi, non lo volete l’autografo?”. Eravamo talmente emozionati che ce ne eravamo dimenticati. Niccolò aveva una penna, ma nessuno aveva un pezzo di carta. I camerieri del ristorante, nel frattempo, avevano abbassato le saracinesche. Che fare? Chiesi a Bruce di aspettare giusto il tempo che mi ci sarebbe voluto per trovare un foglio dentro l’auto. L’unico oggetto servibile era una copia de La lettera scarlatta di Hawthorne, che avevo comprato quella mattina. Bruce si rigirò il libro fra le mani e disse: “Great book!”. Ora il libro è su uno scaffale, nel salotto di casa mia, venerato come un’icona.

9. La Roma che è in Perceber è uguale a quella reale, a quella di tutti i giorni? Sono forse la stessa cosa, delle gemelle?

Per tutta la mia infanzia e la mia adolescenza Roma è stata per me, semplicemente, la mia città. Non esercitava nessun fascino particolare. Solo quando vi tornai, ventiseienne, dopo due anni vissuti a Londra, capii che Roma è semplicemente il posto più incredibile del mondo. La amo come una donna, non sopporto che se ne parli male e ne sono geloso. Negli ultimi trent’anni è stato un luogo-tabù per il cinema e la letteratura. Scrittori e registi vi hanno ambientato le loro storie, ma sempre con un occhio che stesse attento ad eludere i caratteri più tipici della città: abbiamo avuto una sequela di film e di romanzi ambientati all’Ostiense, nelle borgate, nelle periferie più estreme o in certi quartieri borghesi come i Prati e il Quartiere Trieste. C’era una specie di terrore nell’affrontare Roma di petto, nell’immegersi nella sua storia, nei suoi monumenti, nelle sue incrostazioni. Dopo Fellini, Roma, chi l’ha più voluta raccontare veramente? Sapevo che scrivendo un libro su Roma che avesse l’ambizione di restituirla al suo mito, correvo un rischio altissimo. Però ero convinto del fatto che se volevo – come volevo – rendere “epico” il mio racconto, era lì che dovevo guardare: al Colosseo, a Campo de’ Fiori, a Piazza Navona. Gli scrittori americani hanno fatto epica con i drive-in, Bellow ha mitizzato l’orrenda Chicago, Roth ci ha fatto sognare con Newark, e noi, che abbiamo Piazza di Spagna, non riusciamo a fare lo stesso? Bisogna provarci!

10. Io non esito a definire il tuo romanzo, “Perceber”, un Capolavoro, sì, con la “C” maiuscola, doverosamente, ora che l’ho in lettura, ormai già quasi completamente divorato. Ho avuto modo di dire su Perceber.com quanto segue: “Era dai tempi de "Il pendolo di Foucault" di U. Eco che non leggevo romanzo tanto interessante, stimolante. C’era forse il rischio che si partisse col piede sbagliato - adottando un pregiudizio - per poi dire, in maniera semplicistica e assai riduttiva, che Colombati semplicemente un clone à la Pynchon con una spruzzatina di enciclopedismo à la Eco. Ed invece - ormai quasi senza tema di smentita - almeno per me anche, sì, un Capolavoro pienamente originale, che dà alla Letteratura italiana un nuovo energico soffio di vita come non accadeva da quindici anni a questa parte. Con Leonardo Colombati, con "Perceber", la Letteratura è anche un gioco. Ma di gran classe.
C’è il serio rischio che Leonardo Colombati sia presto eletto da critica e pubblico il più originale e geniale romanziere d’un’intera generazione di scrittori.”
Più che una domanda, questa è una constatazione: sono dell’opinione che, a breve, in molti ti riconosceranno come il miglior scrittore italiano degli ultimi vent’anni. C’è di che aver paura per tanti scrittori che tali si dicono e che, forse, dovranno riconsiderare seriamente il loro modo di scrivere. Forse, inconsapevolmente, hai già lanciato una moda letteraria che si consoliderà per mezzo di chi si farà tuo epigono. Qual è la tua opinione?

Devo farti una confessione. Una confessione “piena”. La letteratura italiana del Novecento l’ho frequentata pochissimo. I miei tre autori italiani preferiti sono Landolfi, Gadda e La Capria. Sono stato un ammiratore di Calvino, da ragazzino; ma ad un certo punto non m’è più piaciuto. Quando uscì Il pendolo di Foucault (mi pare nel 1988), assieme al mio amico Bernardino facevamo a gara a citarne a memoria interi passi. Non era tanto la qualità di quel libro ad affascinarci; quanto tutto ciò che gli stava sotto. Tutto questo per dirti che quando ho iniziato a scrivere il libro, praticamente non conoscevo la letteratura italiana contemporanea. Ogni tanto compravo un libro e ne rimanevo deluso. Seguivo sui giornali e le riviste i dibattiti intorno a nuovi romanzi e nuove scuole, e facevo fatica ad interessarmi. Nella mia ignoranza, ero convinto che in giro ci fosse poco di valido. Soprattutto credevo di aver capito che i romanzi italiani fossero o esili volumetti pseudo-minimalisti o sperimentazioni di carattere quasi più “tipografico” che letterario. La confessione che voglio farti è dunque questa: pensavo che non fosse tutto sommato poi così difficile scrivere un libro più bello della media. Soltanto quando ho incontrato alcuni editori e scrittori, ho dovuto leggere i miei contemporanei compatrioti. E ho avuto delle belle sorprese. Te ne cito alcune, a caso: Assalto a un tempo devastato e vile di Giuseppe Genna, Q. dei Luther Blissett, Il suicidio di Angela B. di Umberto Casadei, Neppure quando è notte di Mario Desiati, Nel corpo di Napoli di Giuseppe Montesano, Con le peggiori intenzioni di Alessandro Piperno… E poi Mozzi, Moresco… Mentre scrivevo Perceber – me ne rendo conto solo adesso – ero pervaso da uno spirito polemico nei confronti di ciò che io credevo fosse la letteratura italiana. Poi ho scoperto che la letteratura italiana era, in alcuni casi, molto diversa da come me l’ero immaginata. Migliore.

11. Grazie Leonardo. Sei stato gentilissimo e disponibilissimo. Mi sa che questo è solo l’inizio, perché di domande ce ne sarebbero ancora tante da fare. Ma per il momento, forse, sono sufficienti.

Grazie a te. È stato un piacere.
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