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Il ritorno dei Celti con un astronauta
Giovanni Choukhadarian, Stilos, 22.02.2005
Se la scienza ha ucciso il mistero degli atlanti, la fantasia può resuscitarlo. Così come può farlo l’ignoranza”. Questa frase non è contenuta nello Stato dell’unione, terzo, prodigioso romanzo di Tullio Avoledo: ma è di Tullio Avoledo e proviene da un suo recente articolo di poetica (Non ci sono più i mondi immaginari di una volta..., pubblicato nel newsletter-blog di Giulio Mozzi Vibrisse). Avoledo continua a raccontare mondi simili al nostro – non sono mondi: sono continuum spazio-temporali – ma rispetto al nostro assai più inquietanti. Questo romanzo è preceduto da un esergo tratto – già qui cominciano le sorprese – dal capitolo 40 del libro di Giobbe. E’ una pagina poco frequentata: il lungo discorso che Dio rivolge al suo servo buono e fedele che, di fronte alla privazione improvvisa di ogni bene, ha il coraggio di chiederne ragione al Creatore. Paul Ricoeur ha scritto al proposito che “il grandioso discorso di Dio non contiene una risposta, ma ha la capacità di sospendere la domanda”. E’ il miglior modo per avventurarsi nelle pagine di Avoledo. La prima scena è un interno familiare dei più rassicuranti, in cui però l’autore mette subito in scena l’assessora regionale Martinelli, donna affascinante in preda a un delirio secessionistico. Vuol convincere i suoi corregionali che discendono dai Celti e per questo si affida a un pubblicitario sull’orlo del fallimento, l’Alberto Mendini che è poi la voce narrante. Bisogna diffidare dalle rassicurazioni avolediane: di lì in avanti, il paradosso prende il sopravvento e domina la scena. Si fa la conoscenza di Neil Cassidy (nome non casuale: consuona con quello di uno fra gli eroi del favoloso Electric kool acid test di Tom Wolfe, oltre che ovviamente col Dean Moriarty di Kerouac), con un governatore mitteleuropeo collocabile un po’ a destra di Adolf Hitler, con strategie di marketing impensabili e con almeno un altro paio di donne memorabili. In mezzo, ci sono però un sacco di cose e personaggi veri: nomi di cantanti, marchi di prodotti celebri e no, macchine famose. Negli universi di Tullio Avoledo, niente dà sicurezza: si può persino parlare coi morti e la cosa riesce quasi verosimile. Nello stanco dibattito che si domanda cosa sia cultura popolare, che cosa sia giusto leggere a fini d’intrattenimento non corrivo, Avoledo vola altissimo e dimostra la più semplice della verità: non c’è lettore che resista a una buona storia. Se poi di storie ce n’è più d’una, il gioco è fatto. Di questo e altro Tullio Avoledo ha parlato con Stilos.

"Lo stato dell'unione" è preceduto dall'avvertimento che 'ogni riferimento a fatti' etc. Era necessario che tu lo mettessi? Non è chiaro che il continuum spazio-temporale della narrazione non ha niente a che vedere con il mondo in cui viviamo? O invece ce l'ha?

L’avvertimento era decisamente necessario, anche se poi a quanto pare non è stato sufficiente, dato che un quotidiano locale ha comunque visto nel mio romanzo una polemica verso iniziative e persone reali. Il che non era. Non intendevo scrivere un pamphlet, né la mia satira era diretta verso questa o quell’esponente politico della mia Regione. Fra l’altro, secondo me, la satira politica va fatta in tempo reale, e non è quindi compatibile con i tempi lunghi dell’editoria. Se dovessi proprio farla userei i giornali. In realtà volevo semplicemente scrivere un romanzo divertente ma che facesse anche riflettere. Certo avevo in mente una certa classe politica, fatta di manager o presunti manager del consenso, che può davvero portare a termine o comunque avviare progetti folli perché ne ha i mezzi e perché manca ormai di qualsiasi senso della realtà. Per non dire della moralità.

Quanto hai impiegato a scrivere questo libro? Si direbbe parecchio, se è citato già nelle interviste fatte al tempo del "Mare di Bering".

Il romanzo era praticamente già scritto a fine settembre del 2002. Considerato che avevo cominciato a scriverlo il 25 luglio dello stesso anno, vuol dire che ci ho messo meno di due mesi a finirlo, e poi due anni a levigarlo in modo che fosse un meccanismo ben oliato, una gioiosa macchina narrativa. Comunque nel frattempo non sono rimasto con le mani in mano, e ho scritto un nuovo romanzo che uscirà a novembre per Einaudi. I tempi lunghi dipendono però anche dallo scarso tempo che ho per scrivere. Dato che lavoro a tempo pieno, spesso devo scegliere fra passare una domenica sulla neve con la mia famiglia o restare a casa a lavorare su un romanzo. Non è una scelta facile.

Rabo Mishkin, personaggio molto amato del "Mare di Bering", torna qui, somigliando al se stesso di allora, ma in realtà diverso. Come mai questa riapparizione?

E’ il Rabo di un universo parallelo rispetto a quello in cui era ambientato il romanzo precedente. Quindi è un po’ diverso, sì. L’ho fatto apparire anche nel mio nuovo romanzo perché è un personaggio falstaffiano, che secondo me può reggere il palcoscenico a lungo. E’ soprattutto un personaggio che spacca in due il pubblico dei lettori: c’è chi lo ama e chi lo trova insopportabile. Senza mezzi termini. E questo mi piace. A me personalmente è simpatico. E’ un peccato che non lo conoscessi ai tempi de “L’elenco telefonico di Atlantide”, perché altrimenti l’avrei messo anche in quel libro.

Molte donne dei tuoi libri sono, alternativamente, fascinose o insopportabili. E' chiaro che le donne hanno un ruolo centrale nei tuoi libri, ma perché non se ne trova una normale, diciamo nella media?

Ma sì che ci sono un sacco di donne normali, nei miei romanzi. E’ solo che non parlano. Non hanno battute da recitare, insomma. Passano sullo sfondo, come i “generici” di un film. E comunque fin da piccolo mi sono trovato intorno personalità femminili forti. Ho avuto persino un capo donna, anche se per poco. E’ una cosa meno comune di quanto si pensi, anche di questi tempi. E mi piaceva.

A quale dei personaggi di questo libro sei più affezionato e perché?

Di Rabo Mishkin ho già detto. Ho provato da subito una naturale empatia per Alberto Mendini, per il suo incerto equilibrio fra onestà e furfanteria. Lo sento “vero”. Non so dire se sia un buon padre, ad esempio, ma certo ama i suoi figli. E questo me lo rende immediatamente simpatico. E poi fa quella cosa con la Puritan... Non sarà eroismo, ma è quanto di più vicino all’eroismo io riesca a concepire, di questi tempi. Mi piace anche Aurelia Copetti, la ragazza che seduce Alberto, ma immagino che le sue lunghe gambe e il carattere, come dire, esuberante..., non siano estranei alla mia ammirazione. Poi mi è simpatica, e qui penso che sorprenderò i miei lettori, Cecilia Mazzi, la “cattiva” dell’”Elenco”. Tanto che la recupererò in un prossimo romanzo. Ovviamente, come Rabo, anche lei non sarà la “vera” Cecilia Mazzi. Secondo me era sprecata in un ruolo da comprimaria.

Ti piace davvero così tanto Eva Cassidy, che è la colonna sonora principale del libro? E ti diverti a inserire musica nota soprattutto e quasi soltanto ai redattori del "Buscadero"?

Mi piaceva nel 2002. provi ad ascoltare le sue versioni di “Fields of Gold” e di “Somewhere Over the Rainbow” e poi mi dirà. In questo momento invece ascolto soprattutto k.d. lang e Warren Zevon. E i Wilco. Musica che alterno in proporzioni variabili con ascolti penitenziali di compositori più seri come Arvo Pärt, Peteris Vasks, Veliko Tormis, Osvaldo Golijov, Ivan Moody... Il mix fra i diversi generi musicali non sempre è “potabile”, e potrebbe anche avere seri effetti collaterali. D’altra parte una vecchia striscia dei Peanuts diceva che “l’importante nella vita è avere buoni effetti collaterali”. L’avevo scritto anche su una maglietta, quando avevo vent’anni. Per finire di rispondere alla domanda, non mi preoccupa se è musica considerata poco trendy, o stravagante. Io divido la musica, come il cibo e i libri e le persone, in due sole categorie: “mi piace” e “non mi piace”.

Che cosa c'entra l’astronauta Neil Cassidy con i progetti separatisti che sono il nucleo tematico del libro? E perché proprio lui e non un altro?

Il giorno in cui nacque l’idea de “Lo stato dell’unione” ero a tavola con Giulio Mozzi e Alberto Garlini, a Lignano. Alberto parlò fra l’altro dei Celti e del loro “revival” dalle mie parti. Di Mozzi invece avevo appena letto un racconto fantastico sulle ville di Lignano. Invece di descrivere ville vere, Giulio aveva raccontato degli edifici immaginari. Il più sorprendente di tutti era la villa di un astronauta americano. Quell’idea mi aveva colpito. Così è successo un po’ quello che capita al protagonista del film “La Mosca”: all’atto della nascita del mio terzo romanzo erano presenti i Celti e un astronauta americano. E le due cose si sono mescolate nella trama, formando un tutt’uno inscindibile. E’ andata così, e col senno di poi mi è andata anche bene: avessimo parlato invece di elefanti birmani, forse fra le pagine de “Lo stato dell’unione” si sarebbe aggirato qualche pachiderma...

E' possibile che i riferimenti a movimenti politici e d'opinione italiani e stranieri non dissimili a quelli della tremenda assessora regionale derivino dalla tua passione per la poesia civile di un poeta come Tony Harrison?

Ogni volta che posso, nei miei interventi pubblici, invece di leggere brani dai miei libri leggo e commento dei versi di Tony Harrison. Le poesie dedicate alla morte dei genitori, o quella in cui fa parlare il cadavere di un soldato iracheno carbonizzato dal napalm nella prima Guerra del Golfo. Harrison è un grande, e mi dispiace sia poco conosciuto in Italia. Ma ad ispirarmi nelle parti “politiche” dei miei romanzi è soprattutto la paura. Come ho detto in “Mare di Bering”, credo che la civiltà sia una patina davvero sottile. Basta poco e viene via, e il passato può ripresentarsi nei suoi aspetti peggiori. Un lettore mi ha scritto che il finale de “Lo stato dell’unione”è eccessivo, e che un complotto da mentecatti come quello che descrivo nel romanzo non avrebbe avuto nessuna possibilità di successo. Sbagliato. Posso mostrarle la voce “Hitler, Adolf”di un’enciclopedia tedesca del 1932 e farle vedere quanta derisione contenesse, soprattutto nella parte in cui si ironizzava sul fallito putsch di Monaco e sulle idee esposte nel “Mein Kampf”. Neanche un anno dopo, nel 1933, il nazismo andava al potere. Questo per dire che non bisogna mai sottovalutare nulla. E’ che bisogna imparare ad avere paura.

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