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Per colpa di Citati non possiamo dire che Avoledo è grande
Antonio D'Orrico, Corriere della Sera Magazine, 20.01.2005
Alberto Mendini è un uomo dei nostri tempi, fa il pubblicitario, è sposato con una donna un po’ rompiballe, ha due figli piccoli grandi consumatori di gelato Cucciolone, vive in Friuli-Venezia Giulia e sta passando un brutto periodo professionale perché si è opposto a una truffa dai risvolti assassini di una multinazionale. Solo perché si trova economicamente in cattive acque, Alberto accetta di collaborare con Enrica Martinella, assessore alla cultura regionale, una donna bellissima dal corpo crudele, come avrebbe detto Fitzgerald, impegnata nella rivalutazione della cultura celtica.
Questa dei Celti è una bufala ma Alberto è disposto a chiudere più di un occhio per salvaguardare il suo alto tenore di vita (casa con giardino, automobile di lusso) e, assieme allo staff messogli a disposizione dall’assessorato, si ingegna brillantemente a produrre quello che nel gergo del suo lavoro si chiama evento.
Fin qui si tratterebbe di un peccatuccio veniale (e venale): camuffare un po’ di dati storici per piegarli alle esigenze politiche del presente, un comportamento, tra l’altro, più che corrente. Ma ben presto i peccati diventano mortali. Tanto per dire, l’assessore intrattiene rapporti assai stretti con il governatore del land del Mittelmark, un tipaccio le cui opinioni politiche «lo pongono a destra di Adolf Hitler». Inoltre, dietro la bufala dei Celti si nasconde un complotto mondiale che attenta all’unità di vari Stati nazionali e, come sempre accade su fondali del genere, qualcuno comincia a morire in maniera misteriosa.
A complicare ulteriormente le cose c’è il piano privato: Alberto si innamora, come un ragazzino, di una delle sue collaboratrici mentre a casa è ricattato dalla badante polacca, vittima delle sue molestie sessuali. E sua moglie si vede con uno. Non è finita qui. Spostandosi sul piano ultraterreno, Alberto ha un amico, un americano trasferitosi in Italia, il quale è capace di captare, grazie a una macchina, le voci dei morti. Un bel tocco di macabro, non c’è che dire. L’americano, che si chiama Neil, nasconde poi un segreto personale che riguarda lo sbarco sulla luna del 21 luglio 1969.
La bravura e il talento di Tullio Avoledo, avvocato che lavora in banca e scrive romanzi con la nonchalance con cui la stragrande maggioranza dei poveri mortali scrive a stento un messaggino, vengono riconfermati in pieno in Lo stato dell’unione a due anni esatti dal clamoroso esordio con L’elenco telefonico di Atlantide. C’è in più una maturità compositiva, stilistica e (perché no?) sentimentale. Malgrado il tono e il ritmo da commedia americana, Avoledo fa paura perché considera il passato, la storia, come uno di quei mostri antidiluviani addormentati nelle viscere della Terra dei vecchi film di fantascienza e che fatalmente, un giorno o l’altro, si ridesterà per tornare tra di noi. (Ah, se Pietro Citati, che sembra il ministro Sirchia della critica letteraria, non avesse proibito nelle redazioni e nelle recensioni l’uso dell’aggettivo «grande», lo diremmo di Avoledo. Anzi lo diciamo e paghiamo la multa).
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