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Livio Romano / Giulio Mozzi
libriAlice.it, 10.07.2002
libriAlice.it
Un dibattito tra due scrittori su di un libro, ma anche sull'attualitą e la situazione ambientale italiana. Livio Romano č autore di Porto di mare, un volume uscito nelle edizioni Sironi, una giovane casa editrice che propone testi di narrativa o di saggistica molto stimolanti e di cui Giulio Mozzi č curatore di collana. Questo dialogo appare sull'ultimo numero dell'inserto letterario del Giornale di Sicilia, "Stilos".
Giulio Mozzi:
Caro Livio, di questo Porto di mare io mi sento un po' responsabile. Mesi fa, tu al telefono mi raccontavi di quel che succedeva a Nardò attorno a questo progetto di fare un porto turistico per duecento barche, con ricadute occupazionali minime; e mi scappò di dirti: "Ma perché non la racconti in un libro, questa storia?"; e tu mi hai preso in parola. Non è così, di solito, che nascono i libri... O no?

Livio Romano:
Vedi, Giulio: prima ancora dei racconti, il giornalismo è stato, come si dice, il mio primo amore. Ho trascorso più di dieci anni della mia vita a scrivere reportage di costume per giornali e giornalini locali. Così pure, almeno da quando avevo sedici anni in poi, più che narrativa, erano i giornali che mi piaceva soprattutto leggere. E pure leggevo moltissimi libri scritti da grandi giornalisti. Penso a quelli di Camilla Cederna, dei quali imitavo - diciassettenne catone censore d'ogni male cittadino - lo stile borghese, satirico e distaccato; ma anche i libri di Pansa, di Ottone, di Serra, i tantissimi pamphlet di Luca Goldoni. In quegli anni '80 di "riflusso nel privato", a me pareva che la penna fosse ancora una spada, e che il mio destino fosse quello di impegnarmi civilmente proprio attraverso gli articoli che andavo dispensando ai miei paesani e, di lì a poco, a tutti i leccesi, visto che cominciai anche una collaborazione con il Quotidiano di Lecce. Poi ho vissuto la fase del disamoramento per il racconto "dei fatti così come effettivamente sono andati". I miei pezzi diventavano sempre più "colorati", mi accorgevo che mi piaceva tratteggiare di più i personaggi e calarli in una "scena". Di lì alla forma "racconto" il passo è stato breve. Fu inevitabile mettermi a raccontare le stesse storie, ma sperimentando una lingua che avesse dentro la musica dell'oralità salentina e fosse al contempo talmente "eufonica" da poter essere compresa anche dai trentini. Così è nato Mistandivò, almeno dal punto di vista dello stile. Quanto alla materia che raccontavo, non credo che vi sia alcuno fra i racconti del volume il quale non contenga una tensione quantomeno "etica", se non proprio ideologica. Insomma: si parla di caporalato, di lavoro minorile, di disoccupazione, di emigrazione intellettuale, di lavori messi su dal nulla dai miei trentenni per sbarcare il lunario. Certo, l'andamento volevo che fosse scanzonato, ironico: perché tutta la nuova generazione di musicisti, registi, poeti, pittori del Mezzogiorno aveva e ha ormai abbandonato da tempo quella che Michela Trecca definisce "la monocultura del dolore". Credo che anzi la mia generazione affronti la vita con una buona dose di autoironia, la stessa che conservano tutti i personaggi di Mistandivò.

Giulio Mozzi:
E così ti sei pure ritrovato candidato al consiglio comunale di Nardò, nella lista dei Verdi.. La domanda inevitabile è quindi: Porto di mare è indubbiamente "letteratura", e altrettanto indubbiamente è "politica". Tu che relazione pensi che ci sia, non in astratto, ma nello specifico, in questo libro, tra il "fare letteratura" e il "fare politica"?

Livio Romano:
Io adesso devo dire a gran voce che non esiste scrittura senza responsabilità. Può sembrare una tautologia da quattro soldi, ma è un concetto in cui credo profondamente se pensiamo che il pensiero filosofico predominante ormai da una ventina d'anni ci ha invece indicato il declino definitivo delle metanarrazioni. Beh, io non so bene in quale metanarrazione si inscrivano le cose che scrivo (potrei definirla la "metanarrazione liberal-socialdemocratica con radici cristiane seppur furiosamente anticlericali", ma sarebbe una brutale semplificazione giornalistica). So per certo che una grossa dose di moralismo è uno dei moventi principali della mia scrittura. Del resto, ho sempre fatto politica attiva. Da ultimo persino la mia candidatura con i verdi, evento ascrivibile, più che all'impegno politico, a quello nel cabaret, considerati i diversi colpi di teatro che in un mese sono riuscito a collezionare, dal comizio invelenito alla mail privata andata a finire a mia insaputa nella prima pagina del Corriere del Mezzogiorno. Capacità di mediazione: zero. Attitudine al compromesso: idem. In pochi giorni sono riuscito a racimolare l'antipatia: ovviamente di tutta la destra al completo, e poi dei rifondaroli, dei diessini, dei socialisti, della Margherita. Ho capito una volta per tutte che l'unica politica che posso esercitare è la scrittura. E Porto di mare è propriamente un libro politico.

Giulio Mozzi:
Non so ben quanto c'entri, quello che dico ora, ma mi pare che c'entri. Io sono considerato uno "scrittore cattolico". Eppure proprio sull'Avvenire, una volta, un recensore mi diede con disprezzo dello "scrittore parrocchiale". La sensazione è questa: oggi non devi avere nessuna identità, o devi averne una piatta piatta, semplice semplice, che si possa dire con una sola parola...

Livio Romano:
Giulio, l'Italia è l'unico paese al mondo in cui il presidente del consiglio in campagna elettorale brandisce il maccartismo più becero e trova milioni di persone ancora disposte a lasciarsi trascinare in queste guerre di religione. L'Italia è l'unico posto al mondo dove ancora si gioca a fare i "comunisti" in eterna baruffa con i "fascisti". Se non fosse che, anche per colpa di colpevoli infantilismi politici di tal genere, questo paese non decolla verso una dimensione europea: direi che alla fine questo genere di pepponismo versus doncamillismo è tuttora un serbatoio straordinario di comicità e di storie. Ecco, Porto di mare è la storia di un gruppo spontaneo di cittadini i quali, capeggiati dai comunisti locali, si mettono a dare battaglia contro un tentativo di scempio ambientale. È una storia vera, di quel porto turistico ancor oggi si discute e ancor oggi in paese ci si accapiglia. È la storia bella di un gruppo di persone che ritrovano il gusto di lottare per qualcosa di più concreto che un astratto ideale. E poi c'è uno stream sotterraneo che attraversa tutto il libro: le considerazioni para-politiche (prossime alla boutade) del sottoscritto. Il mio stupore per chi non comprende che si possono avere a cuore le ragioni delle classi subalterne e i diritti dei lavoratori e quelli dei cittadini meno fortunati senza doversi necessariamente dichiarare comunisti. L'altro sommo stupore a scoprire che, dopo Mani Pulite, dopo il crollo della Prima Repubblica, dopo l'Europa, dopo oltre cinquant'anni di Costituzione repubblicana: l'alfabetizzazione politica e giuridica degli italiani è prossima allo zero. Scoprire che i poteri forti, il denaro, il profitto sbaragliano regolarmente qualsiasi norma di civile convivenza e di civile dibattito sul futuro di una comunità.

Giulio Mozzi:
A volte però, leggendo le bozze, mi domandavo: "Ma che cosa succede, qui dentro? Lo so che è tutto vero, perché Livio me l'ha giurato; tuttavia questa è una narrazione che non sembra differente da una narrazione fictional... Livio stesso, qui dentro, potrebbe essere un personaggio inventato!". E mi domandavo se non c'era contraddizione tra tanta "efficienza narrativa" e l'intenzione di raccontare il mondo...

Livio Romano:
Negli ultimi tempi, sai, mi sono innamorato degli scrittori trenta-quarantenni britannici. Degli scrittori e dei registi. I quali hanno, in questo inzio di millennio, il coraggio e la sagacia di costruire questi libretti e queste commediole che, pur nella lievità della narrazione, affrontano temi importanti e, soprattutto, lo fanno all'interno di un ben determinato recinto di valori "militanti". È un po' quello che voglio raggiungere io stesso: ritornare a raccontare la realtà "così come è avvenuta", la prosaicità senza epica della vita delle persone normali, senza perdere di vista la qualità della scrittura e i riferimenti valoriali che mi sono propri. Così in Porto di mare parlo con franchezza di situazioni ed eventi veramente accaduti, parlo delle dinamiche che si instaurano in un gruppo militante, racconto eventi anche dolorosi come il tentato suicidio di uno del comitato. Non so ancora o non so più quale sia la linea di confine fra questa letteratura e la "fiction". Guarda al lavoro di Paolo Nori, che io amo moltissimo. C'è qualcuno che crede che Learco Ferrari non corrisponda pari pari a Nori stesso? Certo, tu lo sai, poi uno scrittore sublima le situazioni, rende eroi taluni e macchiette talaltri, e allora ecco che non siamo già più nel giornalismo, ecco che nasce quella che definiamo "narrativa".

Giulio Mozzi:
Non temi che Porto di mare possa essere considerato, per la sua scelta linguistica più standard, un "libro minore", se non addirittura un "tradimento", rispetto a Mistandivò?

Livio Romano:
So bene che Mistandivò ha avuto un grande pubblico ed è stato recensito benevolmente quasi da tutti proprio per il pastiche linguistico che utilizzavo. Però so anche che queste operazioni possono rappresentare una trappola, se ci si affeziona troppo. Qui nel Salento c'è un gran fermento a sentirsi "Porta d'Oriente", ad immaginarsi addirittura ancestrali automatismi sociali e psicologici che ci deriverebbero dagli antichi Messapi, a riprendere tradizioni contadine (il tarantolismo) e trasformarle in statuto della nostra identità collettiva. Io mi tiro fuori da queste operazioni. Io mi sento molto più vicino al rock'n'roll e ai libri che lo citano, pure se riconosco la meritorietà di questi studi e credo che la sopravvivenza della specie umana dipenda in principal modo dalla misura in cui gli uomini riusciranno a preservare e a perpetuare le proprie specificità. Ma se leggo Hornby che racconta di un depresso e poi dice: "Tutta la gente sola. Adesso sappiamo da dove viene", allora mi viene la pelle d'oca, rido di gusto per la battuta eppure mi sento vicinissimo a quel personaggio, mi metto a canticchiare "All the lonely people" dei Beatles, insomma: abbraccio idealmente personaggio e autore e mi sento parte di un unico patrimonio di segni e codici. Se invece vado a un concerto degli Zoè che cantano "siamo gente col sole dentro e la generosità intrinseca", allora mi pare di assistere a uno show di avanspettacolo della peggiore specie, dichiaratamente rivoluzionario ma involontariamente e fatalmente reazionario.
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