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Pausa caffè al cianuro
Francesca di Mattia, Rai Libro, 27.09.2004
www.railibro.rai.it
Un esordio brutale, un modo nuovo di raccontare l’attuale universo del lavoro: attraverso la “Pausa caffè” di Giorgio Falco, svelati i veleni e le angherie di una classe impiegatizia frustrata.
Le piaghe del lavoro contemporaneo. Il precariato, la feroce flessibilità, il mobbing a oltranza, i soprusi, le attese, i fallimenti. Di pari passo, poi, gente senza scrupoli, dirigenti esaltati dal potere a qualunque prezzo, impiegatucci bramosi di fregare il collega di turno, abbracciando la magica filosofia della produttività che scavalca affetti, etica, valori che non siano legati alla Borsa.
E in rapporto a tutto ciò, un variegato mondo di donne e uomini: disoccupati cassintegrati mobilitati, il cui lavoro è cercare un lavoro, o persone che sono riuscite a trovarlo, e tuttavia impegnate la maggior parte del tempo a gestire battaglie con capi e colleghi (“gestire”, quanto piace questa parolina al personale!): un microcosmo a sé, di lotte sottili e velenose, continue, dilanianti.

Negli ultimi anni abbiamo assistito – con un certo ritardo, purtroppo – a qualche tentativo di raccontare questo abisso. Vengono in mente alcune immagini del film Il posto dell’anima, di Riccardo Milani, in cui i dipendenti di una fabbrica fanno di tutto per difendere il proprio “posto”, appunto, e gli sfiancanti soprusi di Mi piace lavorare, lungometraggio di Francesca Comencini, molto apprezzato dalla critica.
Le mediocrità aziendali sono arrivate persino in televisione, con Camera cafè, programma ripreso da un format francese, in cui gente più o meno frustrata – nella quale tanti si sono riconosciuti – dà libero sfogo ai suoi pensieri davanti alla macchinetta delle bevande, che come una telecamera riprende impietosa gli orrori di pochi minuti, consumati nella tanto agognata pausa caffè. Quest’ultima è poi diventata il titolo del libro d’esordio del trentasettenne Giorgio Falco, pubblicato da Sironi lo scorso maggio.

Falco ci vive dalla mattina alla sera, in questo mondo. E’ impiegato in una nota azienda di telecomunicazioni, il cui imperativo è uno solo: vincere. Ma il suo sguardo va anche altrove, in uffici piccoli e angusti, nelle aspirazioni di una donna che si fa la ceretta, in aneliti di ricchezza alternati a jingle radiofonici, in memorie d’infanzia affogate in sacchetti di patatine. E lo fa scegliendo di scrivere qualcosa che non si può definire un romanzo, né un saggio antropologico sui lavoratori temporanei, interinali, a termine, a contratto. Perché? Ha avuto un’intuizione: non è semplicemente descrivendo questo coacervo di dolore e abbrutimento che riuscirà a colpire il lettore.

Ma piuttosto attingendo direttamente al linguaggio del lavoro/non-lavoro. Il senso di violenza e atrocità appare allora in tutta la sua spoglia verità. I termini aziendali usati durante le riunioni – grotteschi e patetici residui di incalliti yuppies -, le istruzioni di un call center per abbonarsi a un servizio che resterà misterioso per il potenziale cliente, la “rap dance” che accosta i discorsetti del direttore sul futuro mirabolante che ci aspetta – che lo aspetta – a poetici sguardi sulle persone fuori dell’ufficio, fuori del valore aggiunto – fuori –, i luccicanti spot delle campagne pubblicitarie, le improbabili e ridicole regole sui permessi non retribuiti – filastrocche delle grigie crudeli undici di mattina –, gli squallidi menu della mensa, i litigi tra colleghe oche e invidiose, le miserie intinte nelle tazzine del caffè, scandiscono un tempo insano e danno vita a un nuovo codice comunicativo, in cui paradossalmente non esiste comunicazione né comunione, un codice con cui l’autore, destreggiandosi con abilità, costruisce monologhi, dialoghi, flussi interiori e metamorfosi dell’uomo produttivo contro l’uomo improduttivo. Due merci di scambio che oggi non hanno niente da scambiarsi.
Ed è proprio questo linguaggio – appartenente per la maggior parte al mondo delle telecomunicazioni, illusoria miniera d’oro partorita dal capitalismo – a creare l’involucro del libro, al cui interno si muovono desideri, menzogne, speranze, depressioni, meschinità, morti fisiche e psichiche. La pausa caffè diventa un propulsore pericoloso, ciò che determina il prima e il dopo, in una corsa accecante, in un lento dissiparsi di energie. Nasce a poco a poco, scorrendo via via le pagine, una geografia delle professioni (di chi le svolge e di chi vorrebbe svolgerle), fatta di tentativi vani e deliri di carriera. E questa nuova pista forma e trasforma tutto ciò che tocca: sentimenti, città – savane o semplici sale per fumatori – eventi banali, riflessioni sul matrimonio e la famiglia, voci di corridoio. Il mondo viene rigenerato da una mappa inaspettata di malesseri e ostentazioni legate al lavoro, protagonista della vita di ognuno, anche quando è assente. Macabri non sono i fatti, omicidi e suicidi, ma la totale inconsapevolezza che li provoca, la distorsione di un diritto/dovere, l’effetto deformante dato da un software 3D che esaspera e non guarisce.
Eppure, solo svelando tutta l’assurdità del profitto fine a sé stesso, in un così netto contrasto con la perdita della forza (e quindi della forza-lavoro) si può provare ancora a chiedersi cosa fare, come pensare, in questo libro sgradevole ma efficace per la sua ruvidezza, nei capitoletti martellanti che rielaborano lo stile della neoavanguardia italiana. Ma se non ci si riesce, una volta entrati nel labirintico girone di Falco, si rischia di udire una voce minacciosa dall’alto: “L’obiettivo non è stato raggiunto, per il bene dell’azienda devi andartene”. Dove? “Con una buonuscita da far invidia”. A chi?
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Testo riprodotto unicamente a scopo informativo.

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