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Dalla fantascienza alla storia: quasi un mutamento di genere
Bianca Garavelli, Stilos – La Sicilia, 13.07.2004
Parliamo, con L'inglesina in soffitta, terzo romanzo di Luca Masali, di un interessante caso letterario. Infatti l’autore è piuttosto noto tra i cultori di fantascienza, genere non particolarmente apprezzato dalla critica italiana. Ha già pubblicato due ro- manzi, con il primo dei quali, I biplani di D’An- nunzio (1996), ha vinto il Premio Urania e con il secondo, La perla alla fine del mondo (1999), ha anticipato, con la tipica chiaroveggenza degli scrittori, alcuni gravi fatti di terrorismo internazionale. Inoltre, altro particolare degno di rilievo, Masali è forse più noto all’estero (in Francia, in Belgio e in Spagna) che nel nostro Paese.
Ed ecco la sorpresa: con L’inglesina in soffitta, spumeggiante thriller storico ambientato in epoca fascista, appena prima della seconda guerra mondiale, Luca Masali cambia genere. O meglio, sembra cambiare genere. Perché in realtà questo non è un romanzo storico, quanto piuttosto fanta-storico, e a personaggi veri, garantiti dalla storia, fa vivere vicende che proprio garantite dalla storia non sono. Insomma, il grande ambito del fantastico non è abbandonato (né tradito) e il libro è comunque una felice avventura con personaggi credibili, e assai piacevoli, con grande differenza d’età fra loro (il più pic- colo, Raffaele, ha una decina d’anni, il più grande, il Marchion, una settantina), una parabola sull’alleanza fra bambini e anziani, una spy-story avvincente con un eroe tutto italiano, Ettore Majorana, e per di più con una splendida eroina che forse è la più riuscita di tutti, Charlotte McNeal, bambinaia coraggiosa, astuta ma anche affettuosa verso la sua protetta Glory Anne. Che è poi l’inglesina del titolo, o meglio una delle inglesine di questo titolo a doppia lettura.
In cui, come già in altri sapienti mistery, gli intrighi della diplomazia mondiale si mescolano alle meschine vicende quotidiane di un paesino affacciato sul lago di Como, in cui non disdegna di fare la sua apparizione persino il tipico scemo del villaggio, che quasi miracolosamente ha sempre notizie sicure su tutti. Stilos ne ha conversato con l’autore.

La storia è piena di trovate a dir poco sorprendenti, che contribuiscono a tenere alta la tensione e presuppongono un’ottima preparazio- ne scientifica. Quanto è importante il ruolo della scienza nella tua formazione?
Quando si ha un papà scienziato, non puoi evitare di fare i conti con la scienza. Alla fine scopri che puoi giocarci e farla diventare qualcos’altro, per esempio trasformarla in un grandioso materiale narrativo.

Ed è per questo che ti interessa il mistero legato a un grande scienziato, Ettore Majorana?
Majorana è incredibilmente affascinante, perché pasticciava con cose che un comune mortale come me non sa neppure di preciso cosa sono, tipo la meccanica quantistica e le particelle subatomiche, robe che solo a pronunciarne il nome mettono i brividi. Se poi si pensa alle conseguenze della sua ricerca intellettuale, che ha aperto la strada a tecnologie come la bomba atomica o l’energia nucleare, che hanno sconvolto per sempre il nostro mondo, allora è proprio difficile rimanere indifferenti alla sua tragedia umana, al suo scomparire nel nulla senza lasciare nessuna traccia. Viene davvero il sospetto che avesse capito tutto e che quello che aveva capito non gli piacesse per niente.

La vicenda ha per sfondo il lago di Como, che le dà la sua impronta anche per quanto riguarda il linguaggio, un dialetto laghé che affiora spesso nei dialoghi e rinsalda la credibi- lità dei personaggi: quanto c’è di autobiografico in questa scelta?
I miei nonni erano laghé, e sul lago di Como ho passato tutte le vacanze di quand’ero piccolo. La nonna aveva una splendida raccolta di Urania, la collana mondadoriana. Libriccini bianchi con un oblò aperto sui mostri più orribili e sulle galassie più affascinanti che il pennello di Karel Thole potesse immaginare. Immagini che scavavano nella mia fantasia di bambino, materiale insuperabile per creare giochi bellissimi. Il guaio è che non ho più smesso, così ancora og- gi quando invento storie parto da quell’imprinting.

Anche qui, come nel tuo primo romanzo, sono importanti gli aerei, i mitici biplani che hanno segnato un capitolo indimenticabile della storia italiana. Da dove nasce questo amore?
Da che mi ricordi ho sempre costruito aeroplanini di balsa e carta, biplani e idrovolanti e li facevo volare… Ancora adesso mi piace giocare con gli aeromodelli, e li metto volentieri nei romanzi. Non è mai troppo tardi per costruirsi un’infanzia felice.

Il personaggio più forte, forse l’unico vero eroe della storia, è una donna, la bambinaia inglese Charlotte McNeal, che è poco british e molto spericolata. Come hai costruito questo personaggio?
Tempo fa, per un editore francese ho scritto un romanzo breve che si intitolava Le disavventure della balena bianca, inedito in Italia, che è la storia dell’incontro tra Justine di De Sade e il capitano Achab di Melville. Mi sono divertito tanto che mi è venuta voglia di rifarlo, stavolta facendo incontrare Mary Poppins - quella enigmatica e inquietante del libro di Pamela Lyndon Travers, non la versione melensa del film di Walt Disney - e il Tremalnaik di Salgari. Ma sono talmente complementari che alla fine si sono fusi in un unico personaggio: Charlotte Mc- Neal, appunto. Una donna dalla personalità sfaccettata, difficile e terribilmente vitale. Nascendo da Dna così pregiato, il personaggio è talmente potente da apparire reale anche quando è visto attraverso gli occhi di una bambina di dieci anni, che in lei vede contemporaneamente una “orribilosa vecchiaccia” e un idolo a cui assomigliare.

Visto che hai scritto un buon giallo, hai deciso di smettere con la fantascienza, o è solo una pausa temporanea?
Anche se i miei editori hanno deciso che io scrivo fantascienza, di fatto ho sempre scritto storie d’avventura, congegnate con un forte senso del fantastico. Nei romanzi precedenti, I biplani di d’Annunzio e La perla alla fine del mondo volevo raccontare rispettivamente la dissoluzione della Jugoslavia e l’incomunicabilità tra mondo occidentale e universo islamico. Temi che avevano bisogno di orizzonti smisurati, il passato e il presente non mi bastavano, avevo voglia di raccontare il futuro ed esplorare quello che sarebbe potuto accadere se le cose non fossero andate come la storia ci insegna. Ho dunque saccheggiato l’immaginario fantascientifico per trovare le suggestioni che mi permettessero di dipingere un affresco di proporzioni tali da non poter essere compresso nella struttura di un romanzo classico. Ne L’inglesina in soffitta non c’è traccia di niente del genere, e scommetto che anche chi ha apprezzato “i biplani” o “la perla” per gli elementi fantastici qui non ne sentirà per nulla la mancanza: è una commedia in rosanero contaminata con una spy story, ma è anche ciò che io chiamo village-punk. Cioè l’esatto opposto del giallo di provincia, quel genere di storia dove avviene un fatto (di solito un omicidio) che sconvolge la vita di un paesotto, mettendo in luce le miserie e le virtù dei personaggi che lo abitano. Ma tutta la storia gravita sempre nel microcosmo di periferia ed è assolutamente incapace di varcarne i confini. Nel villagepunk, come nell’Inglesina in soffitta, quello che avviene nel nostro paesetto si rivela di proporzioni tali da mettere in gioco i destini dell’Europa intera, travolgendo ogni frontiera, fisica o immaginaria che sia; fino a far diventare il pacioso lago di Como una specie di oceano tascabile dove infuriano burrasche e battaglie navali. Parafrasando un celebre modo di dire no-global, l’Inglesina è figlia della filosofia del “pensa globalmente, agisci localmente”. Quanto al futuro vedremo, dipende dalle storie che saranno raccontate; userò le tecniche più adatte per ottenere il miglior risultato narrativo, e l’etichetta giusta la lascio appiccicare a chi si diverte col marketing. A me personalmente non importa nemmeno del fatto che quel- lo che è etichettato come “giallo” vende e quello che è marchiato “fantascienza” no: il bello di non essere un professionista sta nel poter scrivere storie che piacciono a chi le legge, che siano tanti o pochi è secondario.
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