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Si beve amaro il caffè del dio business
Giovanni Pacchiano, Il Sole 24 Ore, 23.05.2004
www.ilsole24ore.com
«Noi rimoderniamo la filosofia aziendale inserendola nell'ottica globale. Olivetti aveva studiosi, poeti, scrittori, intellettuali. Noi abbiamo tutta la tivù italiana». Così dice un'anonima voce dirigenziale (uno importante, uno che ti può licenziare, o di colpo spostarti altrove) nel racconto Noi, uno fra i più belli, e più disturbanti, dell'eccellente libro di esordio di Giorgio Falco (classe 1967), Pausa caffè. Falco, ci informa il risvolto di copertina, «lavora a Milano nelle telecomunicazioni»; e, appunto al mondo delle telecomunicazioni molte delle sue storie sono dedicate. Per il resto, comunque, di lavoro e di lavoratori si narra: il lavoro nell'epoca della globalizzazione. Ma, a proposito dei precitati tempi d'antan della «vecchia, ingenua Olivetti», avercene ancora!
Per il fatto che l'anonimo di Noi, rivolgendosi al suo subrodinato-scrittore (che sia Falco, magari?) e facendogli le pulci per il suo «libretto», «molto superficiale e vecchio», non bastasse, accusandolo di essere un «patetico» che crede ancora nell'esistenza dei conflitti, ecco, l'anonimo spiega che oggi «le parole non servono per comunicare! Le parole sono un prolungamento della produzione industriale». Così come da tutto il libro si ricava che il dio di oggi è il business, solo il business. Ovviamente, per chi comanda. E non certo per quei tanti, altri prolungamenti della produzione industriale, niente più, che paiono essere le molte voci cui nel libro è riservata, per un attimo, la parola. Non diverse, in certi casi, dai dannati di Dante: un istante da protagonisti, poi il silenzio. E si tratta di voci narranti lamentose, disperate, annoiate, boriose: voci che si mescolano ad altre voci in una babele di sentimenti, aspirazioni, stati sociali, illusioni.
Ma il libro ci sciorina meticolosamente, e ci presenta, inserite nel vivo delle varie vicende, le nuove etichette che incasellano lavori precari di sempre. Quando poi non si tratti, ancora, di lavoro nero… È bravissimo, Falco, e non gli manca la debita spregiudicatezza, nel dipingere le situazioni aziendali, i conflitti fra i colleghi, la voglia di arrivare e la rassegnazione, la paura di perdere il posto. Situazioni tra le quali, ci parrebbe di capire, forse trapelano anche brandelli della sua vita di tutti i giorni. Affollando le pagine, insieme a una prosa più tradizionale, di slogan, comunicati, lettere, monologhi, anche interiori, istruzioni di lavoro. Nonché voci dell'Azienda e voci della radio, assieme a voci di segreterie telefoniche, neutre, impersonali, asettiche. Mentre spicca qualche discorso a effetto: «la parola magica è: insieme», dice una voce, si suppone altodirigenziale, alla riunione semestrale di un'azienda. Già che c'è, la stessa voce proclama anche: «è giunta l'ora». Ma, più semplicemente, si tratta del passaggio «da azienda monobusiness ad azienda multibusiness». Falco gioca col pullulare di nomi stranieri, sigle tecniche, alcune incomprensibili per un comune mortale, ma spiegate in un glossarietto conclusivo. E perciò ci troviamo assediati dal Pin e dal Puk, dall'Imsi e dall'Imei: assieme al dcs al tmc e al tda. Solo sigle? O piuttosto il rovescio, oggi vincente, del povero, vecchio universo della parola argomentante?
Ma ci sono, in Pausa caffè, anche larghe isole di narrazione tradizionale parecchio godibili. Anche se si ride amaro. Come quella del giovanotto di belle speranze che, mollata l'università, si addentra nei meandri del precariato: venditore porta a porta (anzi, seller door to door, fa più fino); poi commesso (in nero) in un grande magazzino di vestiario; infine assunto. Come venditore di scope. Un lavoro che diventa un'ossessione. E però, almeno lui, ha un suo «posto nel mondo».
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Testo riprodotto unicamente a scopo informativo.

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