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Lenin e il PCI nella Bassa |
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Stefano Tassinari, L'Unità - Emilia Romagna, 21.04.2004 |
www.unita.it |
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Con un'ironia garbata, che mai scivola nell'irrisione, lo scrittore reggiano Giuseppe Caliceti è riuscito nel difficile compito di raccontare una dei quelle storie molto rischiose per i narratori, proprio perché, nel descriverle, è facile perdere l'equilibrio e trasformarle in farse. In realtà, nel suo Il busto di Lenin (Sironi Editore), Caliceti entra con una certa leggerezza in una vicenda che, per milioni di persone, si è rivelata pesantissima, e cioè il cambio di nome del Partito Comunista Italiano, conseguenza di un ben più ampio, e datato, cambiamento di linea politica e di riferimenti ideali.
Lo scenario è costituito da un piccolo paese situato nei dintorni di Reggio Emilia, quel Cavriago che, oltre ad essere conosciuto come una roccaforte elettorale del Pci (votato da circa il 65 per cento della popolazione), è forse l'unico centro in Italia ad avere, ancora oggi, un busto di Lenin piantato in mezzo a una piazza. E proprio attorno alla proposta di rimuoverlo – avanzata da molti esponenti della sinistra locale all'indomani della caduta del Muro e, in seguito, dell'Urss – ruota l'intero romanzo, interpretato da cinque anziani compagni "irriducibili", da giovani politici in carriera (che non vedono l'ora di scrollarsi di dosso la propria scomoda storia) e da alcuni ragazzi, solidali con i vecchi ex partigiani e disposti ad aiutarli non solo a difendere l'icona, ma anche l'idea che il comunismo possa rappresentare ancora una grande speranza di liberazione per le masse popolari di tutto il mondo. I cinque vecchi – dai nomi molto significativi, come Libero, Pravda, Ivan, Spartaco e Palmiro – non sono, infatti, degli ortodossi nostalgici e privi di senso critico, bensì dei militanti coscienti degli errori e degli orrori del socialismo reale, e proprio per questo convinti che si debba ripartire senza rinnegare il passato e, soprattutto, senza cancellare ciò che di buono è stato fatto. Ovviamente, trattandosi di persone nate intorno al 1920, faticano a capire certe modificazioni culturali e di linguaggio, ma non per questo evitano di entrare in rapporto con chi si fa portatore di novità (e in tal senso si comportano da maoisti senza saperlo, dato che imparano a "nuotare come i pesci nell'acqua").
Le belle pagine di Caliceti sono attraversate da vari sentimenti vissuti, da molti, in quella fase cruciale che va dal 1989 al 1991: l'incredulità di fronte alle dichiarazioni di Occhetto, la speranza che la base si ribelli, la delusione causata dalla sconfitta interna, la rottura (anche di vecchie amicizie) e la voglia di resistere senza passare per vecchi rincoglioniti, il tutto filtrato da un sarcasmo tipicamente emiliano e da una malinconia che ogni tanto si tramuta in rabbia. Nella difesa del monumento al "Grande Maestro" (non solo dalle tendenze liquidatorie degli ex, ma anche dai fascisti della zona e, in ultima analisi, dal nuovo corso impresso alla Storia dai vincitori), si concentra, al di là dell'aspetto simbolico, tutta l'umanità di chi si vede sfilare da sotto il naso i sacrifici di una vita, le umiliazioni e le violenze subite, le migliaia di ore passate a montare e smontare Feste dell'Unità o a costruire Case del Popolo e, aspetto ancora più importante, la propria identità.
Quella stessa identità che, alla fine del libro, viene invece rimarcata per mezzo di una particolare celebrazione (che non vi raccontiamo), capace di emozionare i protagonisti della finzione letteraria e, sinceramente, anche l'estensore di queste righe. |
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