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“Il suicidio di Angela B.” di Umberto Casadei. Intervista all'autore
a cura di Giuseppe Iannozzi, KingLear.it, 10.12.2003
www.kinglear.splinder.it
1. “Il suicidio di Angela B.”, è romanzo nato per caso o perché sentivi l’esigenza di affrontare la cronaca nera attraverso la fiction?
Dipende da cosa intendi, sia per caso che per romanzo. Se per romanzo intendi un testo d’invenzione più lungo di un certo numero di pagine, mettiamo un centinaio, il Suicidio di Angela B., all’inizio, non doveva essere un romanzo, ma qualcosa di più simile a un racconto, in forma di lettera. Giulio Mozzi stava scrivendo Fiction che, all’epoca, all’inizio cioè del 2000, si chiamava ancora Documentazioni. Constava di un drappello di pezzi bifronti, costruiti giustapponendo scritti che “per statuto” riportavano verità di fatto a scritti di testimonianza esistenziale. Il tutto risultava un po’ diverso da quello che di lì a qualche mese sarebbe diventato: ricordo che Giulio, chiacchierandone, disse che per il momento, non differentemente da quant’era accaduto per il suo precedente “Culto dei morti nell’Italia contemporanea”, ospitava voci e opinioni rispetto alle quali si sentiva dissociato e dalle quali aveva voglia di liberarsi. Aggiunse, però, che nel libro che aveva in mente gli sarebbe piaciuto accogliere identità vere e proprie, a tutto tondo. Ora non ricordo bene se insieme con l’artista Bruno Lorini avesse già cominciato a dar corpo all’opera degli artisti che popolano soprattutto la seconda metà del suo libro: se non ci si erano messi, la cosa galleggiava comunque nell’aria e se ne parlava parecchio, sicché, in seguito, mi son fatto l’idea che per identità a tutto tondo intendesse eccedenze concrete, come, per esempio, l’esistenza di opere staccate dal libro ma, alle voci narranti e alle documentazioni presenti nello stesso, riconducibili. Identità tali in quanto realmente ulteriori, appartenenti cioè a una finzione più grande del libro. Una finzione, in definitiva, mescolata alla vita. Lì per lì non comprendevo cosa avesse in mente (dio sa se abbia mai compreso una sillaba di ciò che a quell’uomo passa per la testa). Ero fermo a un’idea piuttosto grossolana, soltanto parzialmente sgrezzata, poi, nel Suicidio, di ciò che tu chiami “esigenza di affrontare la cronaca attraverso la fiction”. Cioè pensavo che la cronaca ritenesse di avere le stesse esigenze di successo comunicativo della fiction e per rendere più appetibile, dunque vendibile, sé stessa - insomma, per funzionare -, tendesse a utilizzare i tipici effetti di realtà che fanno della fiction quel che è: cosa finta. Onde un discorso su ciò che potremmo chiamare “valori”, in quanto a un certo livello di commistione, ciò che funziona sembra proprio la larva di valutatività di testi che valutativi, per statuto, non dovrebbero essere. Naturalmente, all’epoca, ossia, all’inizio del Suicidio, questa riflessione sui valori, quindi, in fin dei conti, sullo statuto della verità, o delle verità, non era a fuoco: ritenevo tuttavia che il fenomeno dell’informazione drammatizzata fosse dilagante e pernicioso. M’inalberavo, come no, come tutti!, mi verticalizzavo proprio, al pensarci. Il punto, fatalità, non era quello, o era quello soltanto in prima istanza: affrontare la funzione statutariamente deputata a restituire verità di fatto non costituiva che un tassello, un passo che portava al problema della coscienza umana come istituzione, produzione e integrazione di rappresentazioni, anche collettive. Sta di fatto che, benché non capissi niente, Giulio mi fece vedere, in margine al dattiloscritto, un piccolo resoconto giornalistico recante notizia del suicidio di una diciassettenne, per lancio da cavalcavia. Il testo era corredato da una brevissima frase di congedo, scritta dalla stessa. Sotto si leggeva: lettera di X, lettera di Y, lettera di Z, lettera di Umberto - ossia il sottoscritto - qualificati come compagni di classe di Angela. Mi disse di dare un’occhiata al tutto, di farmi un’idea dell’aria che ci tirava e poi, se mi veniva, di provare a scriverci sopra. Ora, nel mio romanzo, chiamiamolo così, a un certo punto, un po’ frettolosamente, si parla di generazione del lettore da parte di un testo. Io, francamente, mi ero imbattuto in quell’espressione in modo incidentale, non troppo meditato, e lì per lì, infatti, cioè scrivendo quelle cose nel Suicidio, non ho insistito sulla faccenda. Generato, non creato, pensavo, della stessa sostanza. Ma mi fermavo lì. E’ stato Giulio a dirmi che quell’idea l’aveva molto colpito e di conseguenza a farmici tornare. Credo stessimo parlando dell’influenza dell’opera di qualche nume, mettiamo Petrarca, sul corpo intero, cioè sugli autori, della letteratura italiana. Autori che senza quell’opera non sarebbero, nella letteratura - dentro alla letteratura, perché era l’universo letteratura l’orizzonte di quelle speculazioni: dunque auctores – non sarebbero, dicevo, esistiti. D’un tratto ho capito che cosa stava dicendo, cosa insomma, mi fosse, credo, a suo tempo balenato: Documentazioni, ossia l’embrione di Fiction, aveva generato – non creato: della stessa sostanza - il suo particolarissimo interlocutore, vale a dire l’iperautore del Suicidio. Che colui che qui ti scrive sia o meno lo stesso non è in fondo gran problema: da un lato me ne prendo la responsabilità, dall’altro, non credo che ciò che il Suicidio esprime, in termini latu sensu politici, sia poi così ambiguo. Certo, per quanto pazzesco mi sembri, dati i tempi, il libro potrebbe essere addirittura considerato reazionario: nella misura in cui metto in scena la sparizione dell’autore e della narrazione – affidata com’è alla cornice – nella misura in cui proprio quella sparizione è in fin dei conti oggetto della finzione cui il libro da corso…

2. Giulio Mozzi, responsabile della collana “Presente Indicativo” in Sironi, ha avuto modo di dire: “Ecco: questo è un grande romanzo. Come, e non solo in Italia, se ne scrivono pochi”. A tuo giudizio, cosa intendeva dire? Mi spiego: è vero che in Italia si scrivono pochissimi romanzi meritevoli? Eppure siamo notoriamente un popolo di scrittori… Uno scrittore, poco dopo l’uscita del libro, in occasione di una presentazione presso il laboratorio di scrittura da lui gestito mi ha detto con estrema franchezza che, a essere stato pubblicato, ho avuto molta fortuna e che Mozzi con “l’operazione Suicidio” ha messo a repentaglio la sua credibilità. Nessun editore avrebbe mai pubblicato, specie come opera prima, un testo con quella forma e di quella voluminosità. Come dire: un po’ pretenziosino, il tutto, no? Ora, Giulio, per banale possa sembrare, quando parla di grandezza, si riferisce anzitutto al numero di pagine. E quando parla di capolavoro, non afferma il Suicidio sia veramente un capolavoro, quanto piuttosto un testo “senza tradizione e con enormi pretese”. Una cosa un po’ a sé stante, insomma. Con ironia (e spericolata delicatezza nei miei confronti), afferma che se il Suicidio ha uno straccio di tradizione, questa è rintracciabile in una specie di meta-genere novecentesco, costituito da opere grosse, antiottocentesche, mancate in partenza, incompiute. Molte di queste opere, noi, in effetti, le consideriamo capolavori. Secondo lo scrittore di cui sopra, avrei anzitutto dovuto dimostrare di essere in grado di scrivere una storia convenzionale. Sufficientemente interessante per stile, plot, argomento, e tenuta narrativa. E poi, forse, avendo in mente qualcosa di strano, pubblicate due o tre storie siffatte, avrei potuto sperare in un’apertura di credito. Giulio ha creduto molto in questo libro e si è sforzato di credere in me personalmente molto prima che come autore (io come autore ancora non esisto: ho fatto troppo poco: un’opera, credo, è troppo poco). Anche quando la forma definitiva iniziava a mostrarsi, ha avuto modo di temere che potessi incorrere in uno dei miei soliti tracolli esistenziali, chiamiamoli così, e tutto potesse rovinare nel nulla. Si è preso un notevole rischio, dal punto di vista professionale e, incitandomi, una grossa responsabilità personale. Buona parte del lavoro è stata portata a termine in condizioni assai favorevoli. A giudizio di quello scrittore, del resto, l’apertura di credito di cui ho goduto non sarebbe mai stata larga, presso un altro editore, quanto quella goduta presso Sironi. Non ci chiamiamo tutti Antonio Moresco, voglio dire. Se quel che Moresco racconta è vero, e credo proprio lo sia, bene: la mia soglia di tolleranza, di sopportazione fisica, di resistenza morale, è infinitamente più bassa. Oltre che molto più piccolo, sono molto, ma molto più debole. Allora, sempre il Suicidio sia davvero un libro meritevole, il fatto è che probabilmente le condizioni oggettive per scrivere romanzi meritevoli non sono nella media fra le più propizie.

3. Un romanzo piuttosto lungo il tuo: è stato difficile cercare di mantenere sempre costante, vigile, l’attenzione del lettore? Come ci sei riuscito?
Non so mica se ci sono riuscito. Vigile e costante, dici? Mah. Se devo essere sincero, credo che la maggior parte dei lettori sia arrivata tipo a metà libro e poi lo abbia parcheggiato. Non mi dispiace mica. Io faccio spesso così. Specie coi libri lunghi. In ogni modo avevo voglia di divertirmi, anche. Volevo che ci si potessero fare sopra delle belle risate. Avevo anche male, molta contraddizione, e un’occasione per spararla fuori. Quando sentivo addosso la furia, l’eccitazione, il desiderio, volevo che s’impregnasse tutto, che si sentisse la fisiologia della scrittura. Paola, l’editor di Sironi, si meravigliava, certe volte, perché diceva che parlavo dei personaggi del libro come se esistessero veramente, e quando ha capito che stava per finirci dentro e che la sua presenza, di Paola, dico, lì dentro, avrebbe potuto generare, a lavoro quasi finito, un altro centinaio di pagine - da rivedere, ridiscutere, riscrivere, e che da queste discussioni, confronti, riscritture, chissà cos’altro sarebbe potuto nascere - s’è presa uno spavento da kilo. Io ce l’ho messa tutta. Non saprei che altro dire. Tutta la forza che avevo io ce l’ho messa. Tutta l’intelligenza, ce l’ho messa. Tutta la bravura. E se qualcosa, allo stringere del tempo, al venire meno della volontà, mi faceva disperare, era il sapere e il sentire che molte pagine, lavorandoci, avrebbero potuto essere migliori. Mi rendevo conto di chiedere al mio immaginario lettore un enorme credito in pazienza. Sapevo addirittura che al dunque, non ci sarei arrivato mai, cioè che in un certo senso avrei frustrato la sua attesa. Mi sentivo disonesto. Quando stavo male, quando sentivo che ciò che scrivevo era debole e inutile, quando mi aggrediva questo sentimento della disonestà, mi capitava di pensare che avrei dovuto trovare il modo di mettere in ogni singola pagina almeno un elemento, chessò, una parola, un’immagine, una battuta, una costruzione sintattica, uno sberleffo, poco meno di un niente, volendo, addirittura il niente, una pagina vuota, la reificazione del niente, cioè qualcosa, un misero zero virgola zero che valesse la pena. Dovevo trovare il modo di dare comunque qualcosa, era per me un po’ come chiedere scusa di tutto questo trambusto, di tutto questo eccesso. Rovescio di questa medaglia sono le estasi. Quando d’un tratto vedi una cosa che certo andavi mettendo insieme, ma che non è quello che credevi e capisci che è giusto così, nonostante tutto il tuo impegno in termini di controllo, nonostante la tua paranoia del controllo. E’ viva, ha proprio l’anima, e tu sei tutto vivo in quella cosa, non so se mi spiego: tu sei la cosa, una cosa che non esiste con tutta la tua vita dentro, vissuto e vitalità e fisiologia. Sta venendo fuori. Io poi sono un lettore distratto, una specie di ficcanaso. Uno che, spesso, più che leggere curiosa e, ancor più spesso, in quella, si perde. E’ tantissimo tempo che non leggo una storia che m’inchioda, un testo che m’ipnotizza. Mi è capitato, naturalmente. Mi capiterà ancora. Eppure non soltanto leggo di gusto, ma esistono libri che mi hanno lasciato letteralmente tramortito, senza che arrivassi a finirli. Come se lette certe pagine, avessi avuto urgenza di lasciare tutto, immediatamente, in attesa. Quest’esperienza ha costituito un altro rifugio, per me, scrivendo. E anche il fatto che quasi sempre si è trattato di libri che non hanno trovato conclusione. In un caso, importantissimo per me, di un libro che addirittura non è stato mai pubblicato.

4. Nel tuo romanzo il protagonista è Gianni Dezanni che ricorda – forse reinventa – la vita che fu di Angela B. Chi è il protagonista? O meglio: chi sono i protagonisti e perché la necessità di affidare il passato di Angela a più voci contemporaneamente? Par quasi che si sia dato corpo a un “Io” partecipante a tutta la comunità da te descritta…
Gianni ricorda e reinventa, ma quest’opera di ricordo e reinvenzione di Angela come “figura”, e protagonista teorica dell’opera, è misera cosa rispetto a tutto ciò di cui in realtà, scrivendo, si occupa. Il passato di Angela, come tale, nel libro, non esiste. Non è preso in considerazione, viene recepito da tutti coloro i quali prendono parola come qualcosa attorno al quale non c’è niente da dire, combaciando semplicemente con i genitori che ha, la comunione e la cresima, la scuola che hanno scelto per lei, la decisione di dare una mano in parrocchia. Nel passato di Angela non c’è niente che valga la pena di essere ricordato, niente che sia percepito da chi le sta attorno come qualcosa che valga la pena di essere raccontato; esso appare a chi lo considera come un foglio bianco sul quale siano stati apposti dallo sportello di volta in volta competente i timbri e i visti a seconda opportuni: se valore è segno che marca uno scarto, il valore di Angela, per il mondo, sta appunto in questa assenza di scarto. Si tratta di una trappola terribile, ipocrita e assassina, cui Gianni oppone in prima istanza il suo tentativo di creazione, quindi, in seconda istanza il suo tentativo di fuga. Per indagare il percorso di Angela ci vorrebbe uno sguardo differente, “minimalista”, infrarosso e amoroso al contempo. Uno sguardo capace di penetrare la maglia della rappresentazione; che nessuno, per lo meno fra gli autori adulti, sembra disposto - o possibilitato - ad assumere. Quanto ai compagni di classe, ci vorrebbe, magari, una differente predisposizione, quantomeno un’intuizione di consapevolezza, perché, in un certo senso, avrebbero l’età giusta, l’età in cui i codici che cuciono il mondo sono tutti slabbrati, pieni di strappi attraverso i quali non soltanto si può scorgere una ulteriorità terribile e bellissima, ma si possono allargare spazi di coscienza e possibilità di esperienza, quindi di cambiamento – proprio ciò che il mondo degli adulti tende, in nome di una sempre più fantasmatica sicurezza, a rimuovere. E’ l’assenza di segni sul foglio timbrato della vita di Angela che sconcerta Gianni, l’orrore di tutto quel bianco, di quel viso senza tracce, l’intuizione di un destino come semplice ciclo di produzione e riproduzione fisica, con tanto di certificati di garanzia: niente da dire, tutto in ordine, tutto al suo posto: una brava ragazza come tante altre. Peccato che a Gianni, sua madre, per esempio, chieda il successo, il contrassegno per eccellenza del valore–valuta: ma non dovevamo essere tutti come Angela – a modo, a posto & niente da dire? Aggiungerei poi che, per Gianni, Angela è scoperta bruciante del vuoto, immagine della libertà – teologicamente, assenza originaria - che riguardandolo personalmente, come mistero, lo sconcerta. NB: il mistero non è tranquillo, addirittura attributo del “figo”: fa star male, te e chi ti sta attorno.

5. Angela Burzo, diciassettenne di Besana, studentessa liceale, una mattina si getta dal cavalcavia della zona industriale. Perché? Era davvero così tanto pesante la vita per lei? Era necessaria la morte attraverso il suicidio?
Si. La vita era davvero pesante. La vita è davvero così pesante. Non è pesante per finta. Non è che però. Non è che cioè. Non è che insomma. Questa è retorica, della più bell’acqua. Per me la vita è contraddizione: quanto più è forte, ti sposta dal mondo, ti esclude, ti mette in conflitto. Ti mostra così, la sua bellezza. Del resto, se da un lato la retorica è un anti-terrore, dall’altro è anche un potente narcotico. La persona a cui voglio bene mi fa: quest’anno la vita ha fatto di tutto perché morissi. La vita quest’anno non ha fatto altro che ripetermi: tu, diocane, devi morire. Tu, dioporco, devi morire. MO-RI-RE. Questa persona, quest’anno, ha perduto il padre. Poi ha perduto il lavoro (flessibilità). Poi la casa (i compagni no-global avevano coinquilini più adatti). Poi sono arrivati 5300 euro da sborsare per una causa perduta (a causa del Sunia) con un vecchio padrone di casa figlio di puttana. Questa persona mi vuole bene in un modo che io non sono capace di corrispondere - un male che dura da otto anni. Per quel che so di questo tipo di male c’è, in effetti, da morirne: un’altra amica ne è morta: suicidio. Per me, questa persona è un eroe. Io l’abbraccio. Mi commuovo. E sento che il nostro “noi” è una casamatta. Non una casa, ma una malga, un rifugio in quota. E le voglio bene, e lotto per questo “noi”, che lei percepisce appunto come retorica: benché, nonostante, sebbene, etc. Io che negandomi faccio il gioco mortale della vita, puntello con tutte le forze le pareti del mondo. Un giorno, questa amica è fuori ogni schema, nella disperazione: guarda le macchine, il traffico, il cielo metallico sopra. E’ un attimo: niente soldi, salta su un treno, scende. Vaga, si perde. D’un tratto, nel nulla, tutto sembra bellissimo. Persino io. E’ bellissimo, quello che vedo. E’ terribile quello che vedo. La contraddizione taglia dentro la carne. A staccarla. Finché le forze vengono meno. Si arrende, sviene, se così si può dire, nella visione, e grazie al cielo, in quest’abbandono, è contenuta, ricompresa, portata in salvo. Ritrova la strada, c’è un altro treno, poi stordimento, oblio. Essere in salvo è al tempo stesso questo non poterne venire fuori: puoi essere così, o non essere proprio. Non se ne viene fuori. Non se ne esce. E’ una trappola che fa impazzire. Nella mia finzione, il mio venirne fuori fasullo, Angela muore probabilmente per l’insostenibilità gratuita di un solo istante di bellezza terribile a fronte del nostro bisogno di misurazione, cioè di mondo: che comanda lavoro, come un’economia, e che vuole in effetti comandare lavoro, come una politica. “Noi” è una casa. Non è né lei, né me. Noi è mondo, cioè uno spazio, una distanza popolata da non da persone, ma da maschere necessarie, costrutti, “autori”.
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