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Cilento: non è il paradiso |
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Tullia Fabiani, Railibro, 06.03.2004 |
www.educational.rai.it/railibro |
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Il libro-inchiesta di Antonella Cilento che racconta cosa significhi "fare cultura a Napoli oggi" |
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Eva non abita nell’Eden. La città in cui vive, Napoli, non è il paradiso, ma non si può dire nemmeno che sia l’inferno, anche solo per il clima incantevole e per la bellezza dei luoghi. Ed Eva mai avrebbe immaginato che un bel giorno il diavolo le sarebbe entrato in casa. Riavulone, diavolo tozzo e sfaticato, l’accusa di essere “ ‘na chiavica ‘e napulitana”, perché lei, insegnante di scrittura “non si riconosce nella lentezza, nell’accidia, nella supponenza” dei suoi concittadini e non si trova a suo agio in un posto in cui “l’arroganza ha sempre ragione”. Perché lei è una persona che vuole cambiare le cose, che non vuole rinunciare all’idea di vivere in un’altra città. E questo non significa trasferirsi, non vuol dire andare a Roma, a Milano o Firenze, ma semplicemente abitare, lavorare in un’altra Napoli. Ciò contro cui Eva è decisa a combattere è lo stereotipo della napoletanità tradizionalmente intesa, proprio quello che Riavulone le propina come unica possibilità per vivere a Napoli. Devi essere disposta a “chiedere favori, a elemosinare amicizie, a frequentare i salotti giusti, a mangiarti il babbá, la pastiera o la mozzarella”, la istruisce il diavolo. Ma Eva ha obiettivi di ben altro genere, completamente antitetici alle tentazioni cui la sottopone il suo ospite: provare a sciogliere l’ambiguità su cui la cultura ufficiale ha campato per anni, lavorare a iniziative che possano durare nel tempo senza dissolversi al calore del sole o alla disinvoltura del tira a campare. Restare per “amore di terra” e perché in fondo “l’abusata questione delle radici ha pure un senso”. E si muove, così, tra convegni e premi letterari, presentazioni di libri, aule di scuola, mostre d’arte, laboratori di scrittura, cene tra scrittori. Solo per non far marcire la speranza; per coltivare quei piccoli, deboli, segnali di cambiamento che ogni tanto incontra sulla sua strada. La storia di Eva è una “favola infernale sul far cultura a Napoli”, una favola che Antonella Cilento, scrittrice napoletana, ha scelto di raccontare nel suo recente libro “Non è il paradiso”, uscito qualche mese fa per l’editore Sironi. Tra entusiasmo e rabbia, illusione e scoramento la città viene presentata al lettore nella sua contraddittorietà e nelle diversità dei suoi due volti. “Una città fatta di retorica, retorica napoletana e anti-napoletana, autoreferenziale e anti-autoreferenziale, fatta di parole e mai di fatti, di intellettuali ingrassati, annoiati, spaventati, di gente che l’ha abbandonata, sempre in nome del proprio personale tornaconto o della personale sacrosanta salvezza. Una città contenta di non gestirsi felice dell’inconsapevolezza”. Ma anche una città “piena di fermenti che nessuno ha voglia di sostenere”. E che se lasciata a se stessa non può che diventare “l’albergo dei poveri diavoli”. Lo scontro continuo tra Eva, trasparente alter ego dell’autrice e il suo tentatore dà vita a questo libro inchiesta che è anche un racconto che tratteggia un quadro politico, sociale e culturale impietoso.
Che sia stato un libro difficile da scrivere l’autrice non ne fa mistero. I motivi? Quasi tutti spiegati nella pagina di "avviso ai lettori" e ai naviganti, (questi ultimi, presumibilmente, lettori della Rete, indicati tra parentesi): “non c’è niente di peggio che scrivere di Napoli”; “scrivete un racconto e vi chiedono il pamphlet dov’è?”; “scrivete un pamphlet e vi domandano e la narrazione?”; e poi il fatto di essere un “libro soggettivo” in cui si parla di ciò che si ha intorno, senza citare testi, senza fare nomi; e questo con l’ambizione di scrivere una denuncia, una satira, una confessione. Il risultato, ci continua ad avvisare e ci anticipa l’autrice è stato quello di “un libro che scontenta tutti” e che detto subito “è brutto” e, per “Autorevoli critici e Scrittori”, sbagliato.
Da un punto di vista squisitamente narrativo sono molti i punti in cui la storia sfuma, il racconto sembra arrancare e perdersi; l’incontro tra Riavulone ed Eva troppo spesso si rivela un vero e proprio pretesto narrativo per denunciare un certo stato di cose. L’urgenza di una voce critica prende il sopravvento e la fiction lascia il passo al reportage. In tal senso il libro può sembrare una specie di pastone: una storia di tentazioni e resistenze (tutte le esortazioni di Riavulone a fare scelte da “napoletana” e tutti i rifiuti di Eva all’adeguamento) che lascia trasparire però un approccio affatto romanzesco; il realismo delle immagini, la frequenza e la precisione dei riferimenti spazio-temporali, (i locali, le piazze, i parchi, gli eventi della città) ne fanno un lavoro documentario; un libro-testimonianza che, proprio per la consapevolezza con cui mostra (nessun tentativo di dissimulare difetti narrativi) i suoi limiti, merita di essere letto. Del resto se anche questo libro non risultasse una lettura piacevole e coinvolgente, l’ammonizione che l’autrice rivolge a coloro che lavorano nella rete di relazioni culturali del Sud d’Italia rende bene il peso di questo lavoro. “Non diventate Riavuloni crescendo. Non rinunciate a capire. Imparate anche a fare, e a far bene, oltre che a parlare e vantarvi delle vostre parole, a distruggere, a pensare ai vostri interessi”. Qualche difetto sì, ma definire sbagliato questo libro sembra davvero troppo. A meno che non si diventi Riavuloni. O lo si è già.
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