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Il romanzo di don Luisito
Paolo Perazzolo, Jesus, 01.03.2004
Stpauls.it
Un suo libro è stato il caso letterario del 2003. Osannato dalla stampa laica, l’autore de La messa dell’uomo disarmato, è un ex prete operaio, che vive da anni all’ombra del monastero benedettino di Viboldone. Il segreto di don Luisito Bianchi? Aver puntato tutto sulla gratuità e aver lasciato che la sua fede fosse messa alla prova dalla storia del nostro tempo.
"Perché ha scelto di essere prete?". La domanda che, in assoluto, non è mai scontata, lo è ancora meno quando si ha di fronte un uomo, un prete come don Luisito Bianchi. E infatti lui risponde anzitutto con un silenzio, che lì per lì può lasciare imbarazzato chi lo conosce solo superficialmente. In realtà don Luisito non si chiude in quel silenzio, ma vi sprofonda alla ricerca di risposte che non sono mai banali, come non lo sono state le risposte più importanti della sua vita, quelle con cui ha cercato di dare ascolto e di interpretare gli interrogativi profondi del suo percorso umano e sacerdotale.

Nato a Vescovato, in provincia di Cremona, nel 1927, oggi don Luisito svolge funzione di cappellano presso il monastero benedettino di Viboldone, a San Giuliano Milanese. Da quel silenzio emerge con un sorriso e uno sguardo che ti punta dritto negli occhi. E comincia a raccontare: "Si entra in seminario presto, quando si è ancora molto giovani, poi si comincia a pensare. Mi venne in soccorso la malattia, che mi costrinse a tornare a casa per le cure. Rimasi fuori dal seminario per un paio d’anni. Più d’una volta mi ero persuaso a non farvi più ritorno, tanto che mio padre, che in fondo aveva sempre sperato che restassi definitivamente a casa, era andato a Valdagno ad acquistarmi un abito da cittadino borghese e fu non poco sorpreso quando gli comunicai l’intenzione di riprendere il cammino verso il sacerdozio. Ciò che conta, comunque, è che quei due anni mi costruirono interiormente. Avevo 17 o 18 anni, ero nel pieno delle turbolenze dell’adolescenza, vivevo quotidiamente l’impeto a seguire grandi ideali e temevo che il seminario e la veste significassero una separazione dalla gente e dal mondo. In realtà continuai a interrogarmi sulla mia vocazione ancora a lungo e solo dopo il 1945, vale a dire alla conclusione della guerra, mi risolsi a diventare prete".

Che cos’era accaduto in quegli anni di riflessione? E il conflitto in quale modo aveva intersecato il percorso vocazionale di don Luisito? La sua prima risposta è, ancora una volta, spiazzante. "I poveri furono molto presenti nella mia scelta finale. Nella mia mente risuonavano le parole del Salmo 12: "Per l’oppressione dei miseri e il gemito dei poveri, ecco, io sorgerò – dice il Signore – e metterò in salvo chi è disperato". Quel per aveva una doppia valenza: di causalità e di finalità. Difficile dire da dove provenisse questo amore per i poveri, gli umili. Certo, non ne erano estranee le letture di Dostoevskij e di Mazzolari, che mi avevano fatto percepire la sofferenza del mondo".

Ma in effetti anche lo sconvolgimento emotivo provocato dalla guerra aveva plasmato le scelte di don Luisito: "Volevo partecipare alla costruzione di un mondo nuovo. Fare il sacerdote, nel mio caso, equivalse a scegliere un impegno senza riserve per la realizzazione di un ideale: la predilezione per i poveri e la volontà di prendere parte alla costruzione di un mondo nuovo venivano ancora prima dell’essere prete o, meglio, l’essere prete si identificava in questa doppia missione. In quel periodo esorcizzavo la figura del "prete borghese" e vedevo in Mazzolari un segno di contraddizione, per la verità poco seguito dalla Chiesa. Alla mia prima Messa non volli regali e chiesi che l’equivalente fosse donato ai poveri. Mio padre fino all’ultimo mi disse che se volevo tornare a casa mi avrebbe accolto a braccia aperte, ma quando si rese conto che facevo sul serio disse: "Sei libero, ma se fai il prete, fallo bene".

Sbaglia chi pensa che la ricerca vocazionale e spirituale di don Luisito si sia conclusa così. Anzi, in un certo senso comincia soltanto in quel momento. A soli sette giorni dall’ordinazione celebra la sua prima Messa di servizio nella cascina di un paese di tradizione comunista e socialista, con le donne e i bambini a riempire i banchi e gli uomini in piazza a sbrigare i loro affari. Poi viene chiamato in seminario a insegnare latino e italiano. Maqualcosa gli rode dentro. ""Che ci faccio qui?", cominciai a chiedermi, "non è meglio andare lontano, dove il nome di Cristo non è ancora conosciuto? Non è più utile ripartire da zero?". Cominciai allora a cercare un vescovo che mi accogliesse come diocesano al servizio della missione. Per un anno mi trasferii a Lovanio per avere una preparazione specifica, improntata allo svestimento della propria cultura e alla disponibilità ad accogliere quella nuova. Conclusa l’esperienza a Lovanio, il vescovo mi esortò a portare a termine la laurea in Scienze politiche a Milano, promettendomi che poi avremmo valutato insieme il mio futuro".

Per un uomo come lui nemmeno la tesi poteva ridursi a un banale lavoro accademico: infatti durò complessivamente più del periodo necessario per superare tutti gli esami e arrivò a una conclusione solo per l’insistenza del padre, che gli disse: "Dammi la soddisfazione di vederti laureato". Tema della tesi: i contadini della Val Padana. Relatore: Francesco Alberoni.
Naturalmente fu don Luisito a scegliere l’argomento, come ulteriore segno del suo amore per la povera gente. "Non fu un lavoro arido", ricorda infatti oggi, "ma condotto fra i contadini, in mezzo ai campi".

A quel punto Luisito, che tutto può essere definito fuorché un prete ribelle, si mise nuovamente a disposizione del vescovo, il quale alla fine lo nominò assistente delle Acli. Ben presto l’incarico lo portò a Roma, su esplicita richiesta dell’assistente centrale. Luisito accettò, ma non passò molto tempo prima che cominciasse ad avvertire un nuovo disagio. "Non potevo fare a meno di chiedermi come potevamo vivere in una casa così bella, noi che eravamo dalla parte degli operai! Mi traferii allora in un piccolo appartamento, per condividere le condizioni di vita di quella gente per la quale stavo svolgendo il mio servizio. Così riuscii a portare a termine l’incarico, ma subito dopo rifiutai la proposta di dare seguito a quell’esperienza. Era infatti maturata in me una nuova disposizione, per cui quando tornai dal vescovo e lui mi chiese: "E adesso dove ti metto?", trovai il coraggio di dirgli: "Voglio andare in fabbrica, per coerenza con la mia scelta sacerdotale". Lui rimase perplesso, ma alla fine mi concesse l’autorizzazione, purché trovassi una collocazione fuori dalla diocesi".

Il 7 dicembre del 1967 è una data che don Luisito porta scolpita nel cuore: "Quel giorno, andando alla Montedison di Spinetta Marengo, in provincia di Alessandria, cantai il Te deum dalla gioia. Allora mi sembrò tutto chiaro, anche gli avvenimenti che in apparenza non avevano alcun senso, come i periodi trascorsi a Lovanio o a Roma".

Se chiedete a don Luisito perché volle andare a lavorare in fabbrica, risponde semplicemente con due parole: "Per onestà". Lentamente in lui si era fatta strada una nuova grande istanza spirituale, un faro che avrebbe guidato di lì in avanti la sua vita: la gratuità. "Volevo mantenermi, sull’esempio di san Paolo. Ritenevo che per un prete la gratuità assoluta fosse un obiettivo irrinunciabile. E non parlo del denaro offerto per la Messa, che ai miei occhi era sterco offerto al clero, ma dell’importanza di provvedere da soli al proprio sostentamento".

L’ideale della gratuità assoluta era maturato nel suo cuore proprio negli anni in cui aveva lavorato come operaio. "Fui assalito da molte domande, allora. Mi chiesi se la Chiesa si comportasse in modo conforme a questo valore. Se non era così, pensavo dentro di me, significava che era una forma di potere, al pari di tante altre istituzioni umane". Luisito lavorò fino al ’75, poi, sempre in accordo con il vescovo, ottenne un anno sabbatico presso l’abbazia di Viboldone. Cominciò così un’intensa ricerca sulla presenza della gratuità nella tradizione della Chiesa. "Fu una ricerca carica di tensione, rischiosa", spiega don Luisito, "perché era possibile che la gratuità non fosse contemplata nella storia della Chiesa. E se così fosse stato, la Chiesa che cos’era? Che senso aveva? E la mia appartenenza a essa come si giustificava?".

È in questa fase che la vocazione di don Luisito si arricchisce di un altro elemento, di un’ulteriore sfaccettatura. La scrittura era sempre stata una dimensione essenziale della sua vita, ma ora divenne la spina dorsale della sua ricerca. Cominciò la stesura di due libri in contemporanea: "Al mattino mi dedicavo al romanzo, La messa dell’uomo disarmato, e al pomeriggio, quasi per riparazione a questo trastullo, mi davo anima e corpo alla ricerca sulla gratuità nella storia della Chiesa, che confluirà in Dialogo sulla gratuità e Gratuità tra cronaca e storia".

"Fu grande la mia gioia", dice, "quando scoprii che non mi ero sbagliato, che la gratuità non era una mia fissazione, ma l’essenza stessa del cristianesimo. Purtroppo però il Concordato del 1984, stabilendo che la Chiesa rinunciava al contributo dello Stato ma poteva gestire direttamente il suo patrimonio, smentiva questa vocazione originaria, così preziosa per i primi cristiani e per gli stessi padri della Chiesa. Si attribuiva infatti al clero quello che era esclusivamente patrimonium pauperum. Ed è per questo che io ho sempre chiesto, e ottenuto, di essere esentato dal sostentamento del clero".

Nella scelta assoluta della gratuità don Luisito trovò la sua pienezza di uomo e di prete. "Quand’ero ragazzo, il legame di sacerdozio e celibato mi appariva come un’imposizione e a lungo mi chiesi se ero disponibile a rinunciare a una donna e a una famiglia. La dedizione totale alla gratuità mi permise di fare un tutt’uno del mio essere uomo e del mio essere prete: oggi non mi sento affatto monco".

Più difficile invece dire come la stesura del romanzo si iscrivesse in questo percorso spirituale. Qui occorre spendere almeno alcune parole su La messa dell’uomo disarmato, che porta come sottotitolo Un romanzo sulla resistenza. Resistenza assume un doppio significato, in quanto è da una parte racconto della lotta partigiana e dall’altra categoria spirituale che indica la capacità di riconoscere la presenza di Dio, della Parola, anche in fatti così tragici e violenti.

"Se la Parola non era presente anche in quei fatti drammatici, allora era vero che Dio era morto dopo Auschwitz". Ma pure tra l’esigenza imprescindibile della gratuità e "la religione della resistenza" esiste un sottile legame: "Quegli uomini che lasciarono tutto, casa, famiglia, figli, lavoro e andarono a combattere sulle montagne per salvare la patria dall’invasore e conquistare la libertà furono l’esempio più bello di gratuità che si potesse pretendere. Fu la testimonianza di come tanti uomini erano pronti a dare la propria vita per la costruzione di un mondo nuovo. E capii anche che quel sangue, gratuitamente versato, non era stato vano, perché ogni volta che ne facciamo memoria, come ho tentato di fare ne La messa dell’uomo disarmato, lo attualizziamo. Esattamente come accade nella Messa, quando facciamo memoria del sacrificio di Cristo".

Ed ecco che all’improvviso tutta la ricerca di don Luisito sembra tornare al punto di partenza e saldarsi in un cerchio denso di significato: la predilezione per gli umili, la volontà di costruire un mondo nuovo, la gratuità, la resistenza, il senso dell’essere-prete e dello stare nella Chiesa. "Cercate e troverete", leggiamo nel Vangelo. Parole che suonano profondamente vere per Luisito Bianchi.

Narrare l’uomo con la Parola

Per don Luisito Bianchi la letteratura è sempre stata, oltre che una passione, una modalità per dare compimento alla sua vocazione umana e sacerdotale. E così, dopo anni di intense letture, che spaziano dalla narrativa dell’800 e del ’900 alla teologia, ha sentito il desiderio di prendere in mano carta e penna. Bastano i titoli dei suoi libri per intuire il continuo intreccio tra biografia e scrittura, nonché la ricchezza di temi che percorre entrambi: Salariati (1968), Come un atomo sulla bilancia (1972), Dialogo sulla gratuità (1975), Gratuità tra cronaca e storia (1982), Dittico vescovatino (2001), Sfilacciature di fabbrica (1970; riediz. 2002), Simon mago (2002). Davvero singolare è la storia che ha accompagnato il suo libro più importante, La messa dell’uomo disarmato (Sironi, 2003, pp. 865, € 19,00). Il romanzo circolò in edizione autoprodotta e autofinanziata tra il 1989 e il 1995. L’editore Sironi si è poi imbattuto casualmente in quest’opera un paio d’anni fa e ha deciso di ristamparla, rendendola così disponibile al grande pubblico. La messa dell’uomo disarmato, libro straordinario e complesso, è al tempo stesso romanzo storico, autobiografia spirituale, elegia della vita contadina.

È, comunque lo si voglia catalogare, un capolavoro letterario scritto con grande finezza e sensibilità, diventato oggi un autentico caso editoriale. La vicenda narrata comincia nella primavera del 1940, in un non precisato paese del Cremonese, segue i protagonisti lungo gli anni della guerra e della Resistenza e li accompagna fin oltre il conflitto.

Alimentato da un continuo intreccio di invenzione letteraria, ricerca spirituale e ricostruzione storica, il romanzo è articolato in tre tempi, quasi secondo un itinerario liturgico: Il gemito della Parola, Il silenzio della Parola e infine Lo svelamento della Parola. La figura dell’autore e la sua biografia spirituale sono riflessi in molti personaggi del libro: in Franco, che esce dal monastero e torna a fare il contadino nel paese di campagna; nel fratello Piero, che non si reputa cristiano ma che spende la vita per gli altri; nel monaco del monastero che si aggrega ai partigiani sulle montagne; in Giuliano, Rondine e Stalino, tre figure di umili che il lettore non dimenticherà facilmente; nell’arciprete del paese, uomo colto e vicino alla gente... La figura dell’abate del monastero è invece modellata su Aureli Escarré, l’abate di Montserrat fuggito dal regime franchista e morto proprio a Viboldone, dove Luisito ebbe l’opportunità di conoscerlo.
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