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L'intermittenza del mondo |
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Andrea Minello, Daemon, 01.12.2003 |
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Ci sono parti del nostro corpo che lasciamo troppo spesso disabitate. Naturalmente, anche la mente può essere una di queste… |
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Laura Pugno è nata a Roma, dove vive, il 30 aprile 1970. Svolge attività di traduttrice dal francese e dall’inglese. Sue poesie sono apparse su “Poesia”, “L’immaginazione”, “Darsena”, “Le voci della luna” e in due raccolte collettive: L’opera comune, Atelier, 1999 e Dieci poeti italiani, Pendrangon, 2002. Con Giulio Mozzi ha scritto Tennis, La Nuova Magenta, 2001.
Riprendendo il tema affrontato nell’editoriale ti vorrei chiedere se oggi davvero si assiste, in campo artistico, a una dicotomia di fondo fra il corpo inteso come riappropriazione d’identità etica e una sua deteriore, autoreferenziale, e omologante, immolazione quasi pornografica.
Leggendo l’editoriale, mi era sembrato di capire che la dicotomia investisse da una parte il campo artistico, e dall’altra quello, ampiamente, pubblicitario e massmediatico, che spesso entra come elemento di citazione anche nella ricerca artistica. Se invece ci situiamo all’interno del solo campo artistico, mi sembra difficile camminare su questo crinale. Io mi attengo a un criterio che in fondo è abbastanza semplice e “fuori moda”, vale a dire l’integrità e la dignità del corpo rappresentato come concetto-limite, che non a che vedere con il pudore o con il moralismo, ma con la possibilità comunque lasciata a quel corpo di essere soggetto di se stesso e delle sue scelte e azioni.
Recentemente Niva Lorenzini ha definito “la corporeità come luogo del linguaggio”. Condividi l’affermazione della studiosa?
I luoghi del linguaggio sono molti, e sicuramente il corpo è tra i più importanti di questi, almeno per me. Credo però che non abbia senso parlare e pensare del corpo e sul corpo, soprattutto in questo momento, come qualcosa di scisso dalla propria mente, consapevolezza, soggettività, presenza interiore, anima se vogliamo. Noi siamo ancora abitati molto profondamente, a livello individuale e quotidiano, da questa dicotomia, e credo che un lavoro giusto da fare vada, invece, in direzione di una riunificazione. Ci sono parti del nostro corpo che lasciamo troppo spesso disabitate. Naturalmente, anche la mente può essere una di queste…
Il volume edito da Sironi segna il tuo esordio in campo narrativo. Ci vuoi raccontare la genesi?
Io sono stata convinta, per molti anni, e a ripensarci oggi è buffo, che non avrei mai scritto prosa. Ezra Pound diceva “la prosa è un’arte, ma non è la mia arte”, e io pensavo più o meno la stessa cosa. Sin da giovanissima avevo scritto poesie, e poi soggetti per il cinema, abbozzi di sceneggiature. La poesia e il cinema erano le due polarità. Ho anche girato un paio di cortometraggi. Poi, a partire dal ’97, questi soggetti per il cinema hanno assunto una maggiore autonomia, forme nuove, una maggiore ricchezza, e mi sono ritrovata in mano un nuovo strumento, la prosa. Aggiungo che la mia esperienza di traduttrice, dall’inglese e dal francese – ad oggi ho tradotto più di dieci tra romanzi, saggi e libri-interviste – ha sicuramente giocato un ruolo determinante in questa mia transizione, o meglio, arricchimento, perché nella parola transizione è insito il concetto di abbandono, e io non ho nessuna intenzione di abbandonare la poesia. Ma per tornare alla prosa, Sleepwalking è stato scritto nel giro di tre anni; ho cominciato a mandare in giro il manoscritto nell’estate del 2000, e a ottobre del 2001 ho firmato il contratto con Sironi.
In Sleepwalking sono le cose a fondare una poetica della realtà attraverso quella che chiamerei “una concreta oggettualità dell’onirico”. Gli esseri umani vengono agiti, svaniscono, o si perdono… sbaglio?
Il mio non è un mondo in cui le cose hanno sopraffatto gli esseri umani. Direi piuttosto che la geografia di Sleepwalking è illuminata di “stelle variabili”. Questi racconti hanno in comune, di fondo, una certa concezione della percezione, di se stessi e del mondo, come qualcosa di intermittente, che appare e scompare, che ci abbaglia a tratti. Vale per il nostro orizzonte interiore, come per le cose che ci circondano, e ci porta ad un’identità, e a un rapporto col mondo, sfrangiato, irregolare, mutevole.
Il tema e lo stile, le frasi minime, il ritmo serrato, la dimensione straniante in cui si viene immersi richiama ai tuoi versi. Qui, la parola si rende espressione materica, pulsante e conduce in un luogo ove la pronuncia del sé è ancora possibile, anche se solo per scarti, residui minimi.
Oggi sento di essere riuscita a riavvicinare la mia ricerca in poesia e il mio lavoro in prosa, mentre prima avevo la sensazione di parlare sempre con voci diverse. Questo in una certa misura è fisiologico, ma adesso ho l’impressione, dev’essere un fatto di maturità, che questa scissione interna si sia saldata. Ci sono elementi che passano molto più liberamente dai versi ai racconti che sto scrivendo adesso di quanto non succedesse prima.
La tua ricerca poetica si snoda in differenti settori: la poesia, la prosa, la critica, il cinema. In che modo cambia il tuo rapporto con l’uno o l’altro campo artistico in relazione allo scandaglio linguistico che rimane, mi pare, il minimo comune denominatore della tua opera?
Il cinema, oltre ad aver fatto da luogo-ospite per la prosa, è stato per qualche anno ed è tuttora un lavoro: ho scritto recensioni per mensili, quindicinali, siti web, ho lavorato nel settore sviluppo di una casa di produzione, al momento collaboro con un trade paper sull’industria cinematografica. Mi sento più una giornalista – di fatto, perché non ho tessere – che non una critica cinematografica vera e propria, per un fatto di umiltà. In quanto alla critica letteraria, il mio negli anni è stato un contributo fatto più di rapide immersioni che di pratica continuativa. La poesia e la prosa, invece, sono i campi in cui sono libera, in cui posso “scandagliare”, piegare il linguaggio in modi nuovi per parlare delle cose.
Qualche anno fa hai avuto modo di parlare di una lingua manx, a distanza di tempo daresti la medesima definizione della tua poetica?
Lingua manx è un pezzo di un mio verso, e una formula critica che è stata adottata da alcuni autori per parlare del mio lavoro, ma non è non una mia definizione personale di poetica. È la lingua degli abitanti dell’isola di Man – dove i gatti non hanno la coda – ed è una lingua che sta scomparendo. Quello del last speaker of his/her tongue è un tema che mi affascina e che di tanto in tanto ritorna nella mia ricerca. Ma non voglio pensare che la poesia sia una lingua in via di estinzione, anche se so che corre questo rischio. Se devo tracciare un’evoluzione nel mio lavoro poetico degli ultimi dieci anni, direi che andiamo da un quasi-azzeramento del linguaggio verso un’organicità e un’unità, o almeno un’unità metamorfica. Adesso, come dicevo più sopra, c’è molta più integrazione tra i due versanti della mia scrittura.
Una tradizione consolidata distingue la poesia femminile da quella maschile per un suo fare espressionista, necessitato per legittimarsi a manifestarsi attraverso le diverse declinazioni del corpo. Oggi, in Italia, le cose sono cambiate?
Credo che le donne che scrivono poesia oggi in Italia centrandosi sul corpo – penso per esempio ad Elisa Biagini – lo facciano per scelta di ricerca e non per necessità di legittimazione storica come poteva essere ancora qualche anno fa. Poi che ci sia una diversa percezione femminile del corpo, biologica ma anche socialmente indotta, è un fatto che resta. Io sono sempre stata incuriosita dai women’s studies, ma contemporaneamente ho sempre cercato di sfuggire alle etichette, anche a quelle “al femminile”, anche quando ti idolatrano o ti santificano. Uscendo dalla poesia, basta aver vissuto un po’ fuori d’Italia per rendersi conto quanto questa sia ancora una società in cui la creatività femminile è considerata merce strana…Passando dal femminile al maschile, secondo me un gran lavoro sul corpo lo sta facendo Marco Mancassola, un giovane scrittore e amico più famoso per il romanzo Il mondo senza di me (Pequod prima e Mondadori poi): ho letto alcuni brani di un suo romanzo in poesia, L’Italia è infelice, ancora non terminato. Mi sono sembrati molto belli e molto nuovi.
Quali sono stati gli autori-cardine per la tua formazione poetica?
Io, in realtà, non mi sento “figlia” di nessuno, e nemmeno sento di avere “fratelli” o “sorelle” nella mia particolare ricerca. In generale, la mia formazione poetica è stata poco “italiana”, anche per ragioni biografiche. Sicuramente un autore importante è stato Paul Celan, scoperto a poco più di vent’anni in traduzioni inglesi e francesi, dato che non parlo tedesco. Mi ha fatto capire alcune cose che si potevano fare col linguaggio. Anche René Char, e altri poeti francesi o di lingua francese come Philippe Jaccottet, Jacques Dupin, André du Bouchet, e tornando indietro nel tempo Saint-John Perse. Anche se la tradizione poetica italiana per me è altissima: torniamo continuamente a Dante, ma anche a Montale... Mi è più difficile indicare un orizzonte di riferimento nella prosa, anche perché, appunto, io arrivo alla prosa per vie tortuose. Prima di me, da quelle parti era approdato il mio migliore amico, che è Giulio Mozzi: ci conosciamo da quando io avevo 18 anni, lui 28, entrambi scrivevamo e pensavamo sulla scrittura, ma nessuno dei due era uno scrittore. Devo a questa amicizia molta della consapevolezza sul mestiere che ho conquistato strada facendo. E parlando di amicizie, essenziale è stato anche il confronto con altri autori della mia generazione, come il gruppo che si riuniva nella rivista Dàrsena. Oggi lavorano quasi tutti nell’editoria. Uno di noi, Vincenzo Ostuni, sta per pubblicare una prima raccolta poetica secondo me di grande valore.
Per chiudere, quali sono i tuoi prossimi progetti?
Sto lavorando su due work in progress contemporaneamente, anche se i miei tempi di solito sono abbastanza lunghi. Il primo è un libro di poesia, la mia prima raccolta vera e propria, e si intitolerà Oro. È un’opera sulla felicità. Dico che è la mia prima raccolta vera e propria perché i testi poetici di Tennis, il libro che ho scritto a quattro mani con Giulio Mozzi e che ha avuto un’uscita invisibile presso Nuova Magenta Edizioni, sono in ordine cronologico e non hanno una “struttura” da raccolta. Il secondo work in progress è il mio nuovo libro di racconti, che non ha ancora un titolo e di cui sento di aver scritto grosso modo un terzo, forse adesso, con le ultime cose, una metà. |
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