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Recensione e intervista a Marco Bellotto
Giovanni Choukhadarian, Stilos, 21.10.2003
A un legal thriller ambientato in un Nord Italia ben poco ma-scherato non si chiederebbe molto. Una storia interessante, rit-mo, coerenza narrativa, precisione dei termini giuridici (quella che manca in tante traduzioni dall’inglese e dall’americano), poco altro.
E invece in questo “Il diritto di non rispondere”, del giovane e-sordiente Marco Bellotto, c’è davvero molto di più, tanto che finisce ad assomigliare al “Suicidio di Angela B.” di Umberto Casadei e, per altro verso e, in maniera meno evidente, persino al fortunatissimo “Elenco telefonico di Atlantide” di Tullio Avoledo. Tre romanzi che, lavorando in maniera differente su materiale di genere, raccontano se non l’Italia di oggi, senz’altro il piccolo mondo di provincia che gli sta attorno. In tutti e tre i casi, si tratta di una provincia per niente giornalistica e dai ca-ratteri anzi fortemente letterari. L’osservazione puntuale è tran-sustanziata nei vertiginosi giochi formali di Casadei, nei deliri e-soterici di Avoledo fino alle astrusità d’intreccio di Bellotto.
In realtà, nel “Diritto di non rispondere” si ha quasi subito l’impressione che il plot sia meno importante di quello che gli gira intorno.La storia è semplice. Un ricco imprenditore viene trovato ucciso nella sua villa e gli inquirenti incriminano e arre-stano la figlia. Tradotta in carcere, la donna si chiude in un si-lenzio così irremovibile da far sospettare delle sue condizioni psichiche.
La vicenda è affrontata sotto tre diversi punti di vista. Quello del marito, un medico affermato e dubbioso; quello di un giornalista free lance facile agli alcolici e alle donne (una figura un po’ convenzionale, la meno interessante del libro); quello del giovane legale cui imprevedibilmente l’imputata affida il suo caso.
Bellotto costruisce con sapiente montaggio alternato i tre diversi percorsi conoscitivi e, data la natura del romanzo, sarebbe scor-retto svelare la soluzione. Ma quello che sul serio rileva è la di-mensione epistemologica della narrazione. Marco Bellotto non si limita a raccontare molto bene la storia di un omicidio misterioso e di indagini in cui non soltanto la polizia brancola nel buio. Quello che interessa a lui e ai suoi personaggi è restituire i climi e le atmosfere di una provincia che è per definizione ricca, agiata e benestante e che malcela le inquietudini di una generazione intera. Nessuno dei tre protagonisti (e men che meno la stessa presunta omicida silenziosa), si riconosce in un gruppo e nessuno, arrivato attorno ai trent’anni, sa varcare la sempre più lontana linea d’ombra dell’età adulta. Tutti e tre, giornalista, medico e avvocato, riconducono a se stessi i problemi e sembrano ignorarne, in perfetta buona fede, la dimensione sociale. La tragedia (o la felicità) non possono darsi se non in forma perso-nale e individuale e il giudizio sottinteso su tutto il resto è quello del giornalista Sergio a una festa: “Non aveva mai sperato di trovare quello che stava cercando, anzi non aveva mai cercato nulla in vita sua. E quindi non era deluso, adesso. Era una que-stione d’equilibrio: troppa gente in circolazione, troppe cose da fare”.
Non sarà magari l’affresco di una lost generation, ma di sicuro “Il diritto di non rispondere” adopera gli strumenti della letteratura per far vedere il tempo presente. Sironi e Giulio Mozzi, editor inesausto, possono a giusta ragione andarne fieri.
1) Perché ha scritto un legal thriller? Non teme di essere eti-chettato come autore di genere?

L’idea del legal thriller nasce da diverse ragioni. Innanzitutto, quando ho cominciato a sentire il desiderio di scrivere, volevo raccontare ciò che accadeva intorno a me; all’epoca ero avvocato penalista e se guardavo intorno a me, vedevo processi penali, giudici, avvocati, pubblici ministeri. In secondo luogo amo le storie avvincenti, e i processi penali, che di norma sono piut-tosto noiosi, possono costituire un buon ordito per una storia av-vincente: un tizio qualsiasi – questa è un’intuizione di Kafka - un bel giorno viene condotto di fronte all’Autorità e deve rendere conto della sua vita. Gran parte di quello che gli accade in seguito è piuttosto incomprensibile (esattamente come è incomprensibile ciò che ci accade in una sala operatoria, o in un altro luogo ove trionfa la tecnica) eppure non mancano nella sua vita delle zone oscure; l’imputato sente di aver qualcosa da nascondere a quella potente macchina inquisitoria. Il procedimento penale esercita un fascino perverso, e ciò è dimostrato dal fatto che le persone sono molto incuriosite dalle vicende giudiziarie, grandi e piccole, anche se spesso non capiscono bene cosa sta accadendo. Quanto alle etichette, mi spaventano poco. Credo che ogni lettore sia in grado di valutare se ciò che sta leggendo sia un buon romanzo oppure no, a prescindere dal genere.



2) Quanto c'è nel libro della sua esperienza di avvocato? Anche lei, come l'avvocato Leo Colonnese del romanzo, ha nostalgia delle preture e del loro "mondo di reati bagatellari e ingenue e-mozioni"?

Come sopra ho detto la mia esperienza di avvocato è stata de-terminante, in molti sensi. Quando ho cominciato a pensare alla storia – era il 1995 – attraversavo una fase ben precisa nella mia formazione professionale: il passaggio dai processi in pretura (gli unici dove può esercitare un praticante avvocato) ai processi di fronte al tribunale. Ebbene, si trattò di un trapasso doloroso, per me, paragonabile al passaggio dall’età giovanile all’età adulta. In realtà le aule giudiziarie sono un mondo duro, dove regnano nervosismo e burocrazia e dove non sembrava esserci posto per l’ideale di giustizia che animava me e molti dei miei giovani coetanei, fossero avvocati o magistrati. (Come è stato am-piamente scritto, peraltro, per gli antichi Greci la giustizia era prerogativa degli Dei, mentre per noi mortali esisterebbe solo il diritto, e cioè “violenza e potere”.) Ebbene, il passaggio dalla pretura al tribunale (e poi la riforma che ha soppresso le preture) ha significato per me abbandonare un ambiente in cui gli interessi in gioco erano sufficientemente ridotti da lasciare un po’ di spazio alla pietas, per trasferirsi in un posto dove l’atmosfera era opprimente, segnata da una “insensata durezza”. Questa è stata la mia esperienza, ma forse questa nostalgia è stata influenzata non poco anche dalla mia crisi personale, iniziata proprio in quegli anni.



3) Quali sono le sue letture e quanto hanno influito sul "Diritto di non rispondere"?

Leggo soprattutto la narrativa anglosassone degli ultimi cin-quant’anni. Nello specifico amo Scott Turow, l’inventore del le-gal thriller moderno, che a mio avviso è un romanziere completo (per questo motivo, al contrario, non apprezzo molto Grisham e gli altri specialisti del legal thriller). Più in generale sono affascinato da autori anche molto diversi fra loro (penso a Martin Amis, Coe, Ellroy, Mc Ewan, e soprattutto Greene e Philip Roth), le cui complesse architetture narrative sanno co-niugare qualità letteraria, trama avvincente, e l’analisi dell’uomo moderno all’interno della realtà che lo circonda. Questo ultimo aspetto, la capacità di inserire personaggi “autentici”, poco “letterari”, nella Storia cui appartengono, mi sembra una caratte-ristica quasi assente nella recente letteratura italiana (i cineasti in questo sono stati sicuramente più bravi) anche se ci sono inte-ressanti segnali di risveglio. Gli autori italiani cui mi sento real-mente debitore sono Fruttero e Lucentini, gli unici, a mio avviso, che hanno compreso fino in fondo la straordinaria capacità del romanzo “giallo” di penetrare ogni aspetto della realtà con-temporanea.



4) E' possibile che "Il diritto di non rispondere" sia anche il ri-tratto di una generazione, quella di chi ha un po' più di trenta e un po' meno di quarant'anni?

Come sopra ho già anticipato, credo che un romanzo di “intrattenimento”, di qualsiasi genere, possa egregiamente occu-parsi di argomenti che si vorrebbero prerogativa della letteratura “alta”. Non ero e non sono interessato a raccontare una storia allo scopo di tenere sulla corda il lettore su un unico quesito: l’imputato è colpevole o innocente? Il mio progetto era più am-bizioso: raccontare, all’interno di una vicenda comunque godibile, una generazione - grosso modo la mia - senza ricorrere a stereotipi oramai superati. Ad esempio l’intellettuale che non riesce più a riconoscersi nella realtà; o il giovane ribelle che de-cide di distruggere tutto o di autodistruggersi. Per questo motivo ho scelto personaggi “reali”, se si vuole molto “borghesi” (un avvocato, un medico, un giornalista) descritti nel loro luogo di lavoro, per le strade della loro città, che poco per volta scoprono cosa hanno fatto del mondo le generazioni precedenti, e che mantengano un atteggiamento di resistenza attiva. Sebbene io sia spesso tentato da posizioni di critica estrema, quasi anarchica, non voglio rinunciare a cambiare il mondo dal di dentro, che poi è tutto ciò che possiamo fare. E’ per questo che sono stato particolarmente (e forse troppo) impietoso nella descrizione del centro sociale occupato.



5) Lei ha scelto di raccontare la sua storia usando tre diversi punti di vista. Perché questa scelta, che può sembrare quasi in-naturale? E quale dei tre punti di vista si avvicina di più al suo?

Il romanzo è nato nella mia mente nel momento esatto in cui ho deciso che i protagonisti dovevano essere tre. All’inizio pensavo che Carlo, Sergio e Leo rappresentassero tre componenti della mia personalità che volevo descrivere separatamente; pensavo poi che il mio desiderio fosse quello di raccontare tre diverse “deformazioni professionali” (io sono stato avvocato, ma se a-vessi potuto scegliere liberamente la facoltà universitaria avrei optato per medicina o per una facoltà umanistica proprio allo scopo di diventare giornalista). Soltanto alla fine della prima stesura mi sono reso conto che i protagonisti sono una possibile rappresentazione della tripartizione freudiana: un incontrollato e incosciente abbandono alle proprie pulsioni (Sergio), un senso del dovere alienante, mortificante (Carlo), una sofferta sintesi fra queste due opposte entità (Leo). A questo tipo di suggestioni credo non sia estranea la lunga terapia psicanalitica cui mi sono sottoposto in questi anni.
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