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Non è il Paradiso Le verità di Antonella Cilento, le verità di tutti noi.
Andrea Di Consoli, Stilos, 21.10.2003
apparso inoltre su www.zonarimozione.net
Il libro di Antonella Cilento, “Non è il paradiso” (Sironi, 190 pagine, 12,50 euro), uscito nell’importante collana “Indicativo presente” diretta dal “vittoriniano” Giulio Mozzi, è un libro feroce, appassionato e crudele. Ci racconta l’impossibilità, la difficoltà di fare cultura a Napoli, città all’apparenza vitale e creativa, in realtà sprofondata nell’autocelebrazione e dominata da una classe intellettuale provinciale e compiaciuta della propria erudizione (e connivente con la cosiddetta camorra light, annidata in tutti gli strati della quotidianità campana). Il libro sta facendo discutere tutti (Su “Il Mattino” di Napoli ha avviato la discussione Generoso Picone, con un articolo in qualche modo “di appoggio”, proseguita sullo stesso giornale con le opinioni raccolte da Vincenzo Aiello, che pure è “personaggio” dello stesso libro della Cilento). Antonella Cilento ha pubblicato sin qui una raccolta di racconti e un romanzo (“Il cielo capovolto” e “Una lunga notte”), in più tiene corsi di scrittura creativa in giro per la Campania e per il Sud (collabora da alcuni anni con Antonio Spadaro). Solo Dio lo può sapere come si scapicolla la scrittrice di Napoli per tentare di vivere di cultura in quel Sud che tutti noi amiamo ma che, a questo punto, sta diventando un luogo odioso, una terra nemica che continua a premiare soltanto i furbi, i lestofanti e i letterati politicanti. Il grido della Cilento è un po’ il grido di tutti noi che giorno per giorno lavoriamo sul Sud, molto spesso per puro volontariato. Il libro è da leggere e da discutere, al di là della facile accusa di moralismo che qualcuno potrebbe muovere alla Cilento (è moralista chi dice che il camorrista è camorrista?). Antonella Cilento ha detto la sua verità, che poi è anche la nostra verità. Napoli è una delle città più chiuse del Sud, quella che ancora crede di essere “capitale” del Regno delle Due Sicilie, senza mai mettersi in discussione, sempre divisa tra un passato presunto glorioso e continui rinascimenti annunciati con grande trambusto. Mentre il grido recente contro Napoli di Goffredo Fofi è ridicolo e astratto (perché mai Napoli dovrebbe persistere nella tiritera della resistenza all’omologazione? Com’è possibile accusare Bassolino di tradimento quando, nella realtà, nessun cambiamento sostanzioso è avvenuto tra un prima e un durante l’era Bassolino?), l’atto di accusa della Cilento è vero e concreto, perché nasce nella concretezza della vita, nella carne del quotidiano. Fofi è ideologico, la Cilento è pratica. Il testo è bellissimo (un misto di pamphlet e narrazione), urgente, impetuoso come una colata lavica. La scrittrice femmina e napoletana ha tirato fuori i muscoli e sta agitando il pugno contro chi di dovere. E’ un urlo come quelli che si sentivano nelle pagine di Matilde Serao. I benestanti (quelli che un tempo venivano chiamati filistei) alzeranno le spalle e tireranno fuori l’accusa di moralismo, rancore personalistico, emotività poco controllata, ecc. Ma “Non è il paradiso” è una discesa infernale nell’universo della flessibilità, del “rompete le righe” del nuovo capitalismo italiano (senza capo né coda), della corruzione culturale di Napoli e dell’Italia. Perciò non si potrà fare a meno di discutere le problematiche che sono state sviscerate in modo spietato in questo libro. Per parlare di questo, abbiamo incontrato Antonella Cilento.
Com’è scattata la necessità di scrivere questo libro? Quand’è che ha avvertito l’urgenza di scrivere “Non è il paradiso?
In effetti l’idea è maturata negli anni, nel senso che si erano accumulate una serie di esperienze per la mia attività di operatore culturale in città che mi mettevano nella condizione di ragionare su una serie di problemi e di difficoltà che si incontrano lavorando qui a Napoli e poi in generale nel Sud. Poi l’occasione si è creata perché Giulio Mozzi, che cura la collana “Indicativo presente” per la Sironi, mi ha proprio chiesto di lavorare sulla città, di scrivere qualcosa che riguardasse la città e che fosse non necessariamente un progetto narrativo in senso tradizionale. E così ha cominciato a lavorare dentro di me l’idea di poter organizzare tutta quest’esperienza, purtroppo non felice, non facile, che si è aggregata in quest’oggetto che è sia un pamphlet sicuramente duro e con dei toni morali e sia un testo narrativo.
Infatti, la dimensione narrativa è prorompente in egual misura rispetto al “contenuto” intellettuale del libro. C’è questo scatenato Riavulone che dice continuamente a Eva: tu non sei napoletana, vattene da questa città, tu non sai apprezzare le cose di questa città.
Sì, è così. E soprattutto Riavulone tenta di provocare Eva tutto il tempo cercando di dirle: vedi di diventare anche tu napoletana-napoletana. Questo è il problema, nel senso che Eva riassume per forza di cose il mio punto di vista, mentre Riavulone è il simbolo di tutto ciò che Napoli propone anche come oleografia e come modello di se stesso. In qualche modo Eva è stanca di doversi confrontare sempre con la questione dell’identità, che per chi vive a Napoli è centrale, ma soprattutto con la difficoltà quotidiana di conversare con una città che apparentemente è aperta, vitale, allegra, creativa e solare, ma di fatto, quando si tratta di organizzare qualcosa di strutturale, si trova invece a creare una struttura che è una forma di camorrismo light.
Qualcuno l’accuserà di moralismo. Dirà: la realtà (tutte le realtà del mondo) sono in chiaroscuro, c’è del bene e del male in ogni cosa e Napoli non fa eccezione.
Questo sicuramente. Da un lato è chiaro che ogni volta che ci si trova di fronte al genere del pamphlet, che tutto sommato è un genere sempre meno praticato, o comunque ridotto a certi ambiti più facilmente politici o antropologici, si corre il rischio di dare una visione moralistica e non soltanto morale delle cose. Restare a lavorare qui in città e scegliere di restare a confrontarsi con la metastasi che lei prima giustamente rievocava, fa correre il rischio a chi resta di trasformarsi in ciò che si è. Quindi un’accusa più che legittima, ovviamente, ma io spero che il tono ironico e anche spesse volte sdrammatizzante, perché tutti gli eventi che vengono raccontati sono in realtà grotteschi, cioè al limite dell’impossibilità, in fin dei conti tenda a trasformare certi fatti in invenzioni, non fossero cose realmente accadute.
Napoli è una città che i “forestieri”, dopo averla visitata superficialmente, definiscono stupenda, vitale, avvolgente, creativa, poetica, ecc. In realtà Napoli è un universo hard, dove c’è un codice preciso da rispettare, dove nessun “esterno” è veramente ammesso. Qualcuno ha parlato di metastasi. Napoli si autocelebra quotidianamente e, se qualcuno azzarda una critica “da fuori”, tutti mettono le mani avanti: Napoli è complessa, Napoli è roba nostra. Il suo libro si conclude con un pensiero importante: “Una società che si osserva con spirito critico è una società civile”. Napoli, ovviamente, non è in grado di osservarsi criticamente.
Diciamo che il grado di inciviltà io lo misuro proprio in questo, cioè nell’incapacità di riuscire a osservarsi con una forma di obiettività, quanto meno tentata se non raggiunta. La città tende a costruire immagini di sé positive all’esterno, e questo in maniera legittima, perché no? Però si chiude in queste immagini e quindi Napoli è capitale, per esempio, tradizionalmente viene detto questo di Napoli, e però questa definizione dell’essere capitale della città non corrisponde nemmeno con la dimensione della metropoli della città. E’ un’immagine ottocentesca. Napoli vive ancora di una serie di immagini ottocentesche, che poi sono state segnalate da autori molto più importanti di me, come La Capria. E tuttavia c’è una forma di oleografia successiva a quella ottocentesca che è la nuova Napoli che adesso si sta configurando in questi anni che cerca di essere capitale della cultura del villaggio globale senza però essere radicalmente modificata.
Scrittori come Franchini, Montesano, Serio, ecc. hanno indubbiamente tirato in alto la letteratura da Napoli, e tutti noi abbiamo appoggiato questo fiorire di scritture “napoletane”. Però sembra che l’editoria abbia oggi una specie di nicchia da garantire, ovvero quella degli scrittori napoletani. Avere un napoletano nella scuderia è diventato una specie di must.
C’è stata questa stagione felicissima, che c’è tutt’ora, in cui la narrativa napoletana e poi in generale meridionale ha veramente avuto una crescita esponenziale, e questo è un fattore positivo. Nella mia esperienza, ma anche nelle chiacchiere generali, nelle impressioni che si hanno nel relazionarsi con gli editori del Nord, c’è un po’ quest’aspetto scontato, per cui si dice a volte di un editore che “ha già il suo scrittore napoletano”.
“Non è il paradiso” è un libro che racconta, perché non dirlo, gli effetti della flessibilità, del precariato imposto come modello, del nuovo lavoro senza lavoro, di una società che non ha curiosità, non ha doveri, non ha responsabilità, perché quello che ancora riesce a garantire l’economia statale, in qualche modo, basta per mantenere un sistema di consenso politico stabilizzante. Chi è fuori da questo “giro” lotta nel deserto, raccoglie le briciole che cascano a terra. E’ comunque possibile lavorare stando sul mercato, ovvero fuori dal sottobosco governativo delle istituzioni grandi e piccole?
E’ possibile, nel senso che dovrebbe essere possibile. La cosa che più mi fa infuriare è che quando si tenta un’operazione di questo genere, che è un’operazione di rischio, non si viene aiutati. Io quando ho incominciato undici anni fa a tenere corsi di scrittura creativa mi sono assunta il rischio di essere un oggetto non identificato, un libero professionista che non poteva essere inquadrato. Si può fare con maggiore facilità e più rischi, però bisognerebbe anche essere aiutati, ma non dalle istituzioni, veramente è un problema di contesto sociale, che poi si riflette inevitabilmente nelle istituzioni.
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