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Napoli amara |
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Generoso Picone, Il Mattino, 09.10.2003 |
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C’è l’editrice Chiacchiera Raffinata e c’è l’editore Triste con il suo aiutante Mesto, c’è Grigio l’opportunista pieno di debiti e c’è l’editore Afferro abilissimo nell’intercettare i finanziamenti pubblici. C’è la Promotrice Culturale rapace e disinvolta e c’è il Critico Raffinato pronto a mutar parere seppur con sofferta meditazione. C’è l’Antropologo, ci sono gli scrittori con il loro nome e cognome - da Arpaia a Piccolo passando per Bottone, De Silva e Franchini - e ci sono anche gli assessori, che però non meritano né la maiuscola né la citazione onomastica. C’è Galassia Gutenberg stanca e polverosa. C’è Napoli, la Napoli di questi anni, un po’ Circolo Pickwick della Tarantella e un po’ Montmartre del Rinascimento vesuviano, comunque molto pasta e pizza, luogo invisibile dove tutto "già è" e mai declinato al futuro, dove tra il restare e l’andare via rimane in bilico il sogno inarrivabile di Heidelberg, dove gli squarci di straordinaria, commovente bellezza non riescono a ripagare della fatica di viverci, di lavorare, di impegnarsi. C’è questo e altro in Non è il paradiso, il nuovo libro di Antonella Cilento (Sironi, pagg. 190, euro 12,50: da domani in vendita).
Libro duro, a tratti durissimo per il tono che l’attraversa. Pamphlet, diario civile, inchiesta, referto di una disillusione, esame di coscienza di una generazione: in questo testo Antonella Cilento - autrice molto più che promettente dei racconti de Il cielo capovolto pubblicato da Avagliano nel 2000 e del romanzo La lunga notte uscito da Guanda l’anno scorso - per la prima volta si misura con argomenti e personaggi piantati nel presente e lo fa senza alcuna mediazione retorica. Voleva scrivere un libro sulla vita culturale a Napoli oggi, ha assunto come riferimento l’icona de L’armonia perduta di Raffaele La Capria e magari pure le pagine de Il mare non bagna Napoli di Anna Maria Ortese, di Via Gemito di Domenico Starnone e de Il lavoro culturale di Luciano Bianciardi: ma poi il resto l’ha accumulato di suo, in Non è il paradiso c’è la sua esperienza, è - avverte - "un libro soggettivo e in soggettiva, una parodia, una denuncia, un racconto, una satira, una confessione. Una storia che osserva e si fa osservare". Quindi, un libro che farà discutere e magari alimenterà il rituale gossip dell’identificazione con le sagome disegnate, non considerando che probabilmente ogni profilo si propone come una sorta di categoria sintetica a priori della società culturale (sic!) nell’Italia di questi tempi, vista da Napoli ma tutto sommato non diversa altrove.
Quel che colpisce di Non è il paradiso, in ogni modo, è la cifra ultimativa che lo caratterizza. Antonella Cilento, a 33 anni, pare aver deciso di chiudere i conti con la propria città, con l’ambiente dove ha vissuto e prevedibilmente continuerà a farlo. Avrebbe potuto concedersi la trasfigurazione romanzesca - che le regala soltanto la figura di Riavulone, il diavolo paradigma della napoletanità che l’accompagnerà lungo la "favola infernale sul far cultura a Napoli" - e invece ha scelto di consegnare al lettore un dato di esperienza concreta. Di una sconfitta, anche se il finale apre alla speranza - "Una società che si osserva con spirito critico è una società civile" - , epperò decisamente problematica.
Per esempio, dopo aver constatato che Napoli è una città "contenta di non gestire, felice dell’inconsapevolezza", dove l’arroganza "ha sempre ragione" e la camorra sa essere simpatica "come l’intelligenza e la cultura non saranno mai" perché in fondo - a Napoli e nel Sud intero - si ama parlare, lamentarsi, essere supponenti, presuntuosi, irresponsabili. A eccezione di grandi napoletani d’adozione, ma non di nascita e perciò immuni dal virus loci, come Gustaw Herling. Restare o partire, lui ci è venuto.
Il coraggio di Antonella Cilento contiene un margine di rischio: di condurre il suo tentativo di - diciamo così - denuncia sulla scena del teatrino autorefenziale che intende mettere alla berlina. Di essere, insomma, un capitolo della favola che narra.
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