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Ieri avvocato, oggi scrittore
Cristina Genesin, Il mattino di Padova, 24.08.2003
Successo editoriale per Marco Bellotto, ex penalista, autore di un legal thriller da poco in libreria
«Il mio modello? Non ho dubbi: Scott Turow»
Stregato da Turow. Convinto da Grisham. Alla fine, pur non avendo un nome e cognome made in Usa, anche lui ce l'ha fatta. Marco Bellotto, padovano, 38 anni non ancora compiuti, da avvocato è diventato scrittore sfornando, naturalmente, un legal thriller. E che poteva scrivere un avvocato che ha deciso di appendere al chiodo la toga? L'addio alla professione: una scelta di vita. Non per la vocazione di scrivere. Forse solo per la passione di coltivare quell'arte e di trovare nuovi stimoli. Dimenticati i Palazzi di giustizia di Padova e di Venezia che frequentava abitualmente e lasciati gli agi che il mestiere di penalista già cominciava a fruttare, Marco Bellotto ha cercato altro: dentro se stesso. E intorno a lui. Un paio d'anni trascorsi tra il soggiorno in una missione africana, immersioni nello studio e qualche lavoro precario, poi la fatica letteraria si è conclusa. Ed è arrivata in libreria con il romanzo "Il diritto di non rispondere". Un buon debutto di cui parliamo con l'autore.

Il legal thriller è un genere letterario fondato da scrittori-avvocati. È una professione che alimenta suggestioni narrative?
«Assolutamente sì. Un legal thriller può scriverlo solo un avvocato o un ex imputato anche se nasce con "Il processo" di Kafka e diventa un genere grazie a Scott Turow...».

Un genere che sta conquistando gli scrittori italiani...
«I legal thriller italiani cominciano ad essere pubblicati adesso. E non è casuale: la generazione di avvocati cui appartengo è stata la prima che ha utilizzato nel penale il modello del nuovo sistema processuale di tipo accusatorio».

Per lei ha contato molto la professione forense...
«Certo. Uno racconta quello che vede. Può essere che ti venga in mente di raccontare delle cose lontane: ci sono casi straordinari di scrittori, penso a Salgari, che hanno raccontato cose mai viste in vita loro. Ma di regola il tuo primo rapporto con la scrittura nasce perché vedi le cose che ti girano intorno... Un esempio: per descrivere la scena ambientata in una sala operatoria, sono andato all'ospedale di Dolo e sono stato sei ore in piedi per assistere ad un intervento».

Gli ingredienti del suo romanzo?
«Un procedimento penale che scaturisce dalla morte di un uomo, l'onorevole Ottavio Vidali, una figura di assoluta fantasia. C'è anche un'analisi della nuova situazione politica, ma non è la parte del libro cui sono più affezionato. Però è bello che attraverso un romanzo si possano fare analisi con un taglio sociologico».

Fin dall'inizio aveva intenzione di scrivere un legal thriller?
«Sì, tuttavia volevo che ci fosse qualcosa di più, per quanto il genere mi piaccia molto. Pensavo di raccontare cose che andavano al di là della mia esperienza professionale. Mi interessava anche raccontare la mia generazione che trovo narrata in tanti modi straordinari nella letteratura italiana, però... Al di là di molti esempi felicissimi, trovo che la nostra narrativa sia un po' troppo legata ad un'impostazione letteraria».

È il retaggio che ci portiamo dietro da secoli...
«È la colpa originaria. In genere la letteratura italiana è un po' viziata dalla preoccupazione estetica per la bella scrittura. Con eccezioni: Camilleri e Pontiggia».

Come narratore a chi deve qualcosa?
«L'autore di legal thriller che mi ha influenzato di più è sicuramente Scott Turow. Grisham lo apprezzo fino ad un certo punto. È bravissimo ma sarebbe capace di scrivere libri un pochino più di qualità. Però, chi glielo fa fare? In fondo guadagna 20 miliardi l'anno lo stesso. Turow invece è sempre riuscito a coniugare qualità, ritmo avvicente e prodotto commerciale. Che non è un concetto negativo: un libro deve vendere. Sono convinto che un libro che vende mezzo milione di copie qualcosa di buono ce l'ha per forza. Tanto è vero che a me è piaciuto il libro di Faletti ("Io uccido", ndr): non credo che vincerà mai il Nobel, ma ha scritto un libro estremamente gradevole».

Con quali autori italiani sente di avere delle affinità?
«Fruttero e Lucentini. A parte Turow, tra gli stranieri mi piace molto l'inglese Jonathan Coe e Ian McEwan. E poi amo Graham Green».

Il suo libro è ambientato in questa fantastica città di Santamira dove si riconoscono pezzi di realtà padovana...
«Se c'è una cosa che mi dispiace un po' è che la città venga identificata tout court con Padova».

Magari un milanese ritrova pezzi di Milano...
«Io vorrei che anche un pescarese riconoscesse in Santamira la sua città. Credo che Santamira possa essere la metafora di tantissime città italiane».

C'è un palazzo di giustizia costato il doppio di quello previsto. Come a Padova.
«Sì, questo è vero».

Il romanzo ha un impianto narrativo complesso...
«Ho sempre letto molto. La voglia di scrivere mi è venuta intorno ai 30 anni. Forse avrei frequentato Lettere all'Università se mio padre non mi avesse costretto a fare Giurisprudenza. Da giovane ho scritto anche qualche articolo sul calcio per il mattino. E così quando ho scelto le professioni dei protagonisti, oltre all'avvocato ho inserito un giornalista e un chirurgo, lavori che avrei potuto fare. Anzi fare il chirurgo mi sarebbe piaciuto proprio».

Com'è nata la storia?
«Ci sono pezzi di processi che ho fatto oppure ho visto, persone che ho conosciuto, frammenti di storie vere».

Quanto tempo ha impiegato per stendere il romanzo?
«Materialmente ho cominciato a lavorare al libro nel '95. Ma seriamente alla fine del '98: ci sono voluti un paio d'anni. Nel frattempo non mancavano i problemi: non resistevo più a fare l'avvocato».

Lo scrittore Giulio Mozzi è stato determinante?
«Sì, l'ho conosciuto alla scuola di scrittura creativa dell'associazione Lanterna Magica con Stefano Brugnolo. Una scuola che ho deciso di frequentare non prima di iniziare il libro: non volevo correre il rischio di essere influenzato troppo. E comunque la consiglio caldamente a chi voglia cimentarsi con la scrittura».

Non sarà stato facile dire addio alla toga...
«Nel maggio 2000 ho smesso di fare l'avvocato ma non per diventare scrittore. Ero semplicemente in crisi con la mia professione. E lo dimostra il fatto che nell'ultimo periodo, in udienza, ero insopportabile. Non ne potevo più del sistema. Così sono partito per l'Africa, andando a fare il volontario in una missione comboniana in Ghana per tre mesi: è stata un'esperienza bellissima che vorrei ripetere. Volevo finalmente sentirmi utile. Prima mi sembrava di essere una rotella inserita in un sistema che realizzava sempre lo stesso prodotto».

Ha lasciato una posizione di sicurezza costruita in anni di fatica...
«È vero, ma dopo l'esperienza africana mi sono sentito meglio e ho concluso il romanzo. Poi ho dovuto fare i conti con la realtà».

Allora ha iniziato un nuovo lavoro?
«Ho fatto più di un lavoro, anche l'operaio per tre mesi. Ora sono in un'azienda che è consulente di enti pubblici. Non escludo di reiscrivermi all'Ordine degli avvocati, non certo per ricominciare a fare il penalista».

Turow non ha mai lasciato la professione forense...
«Ma Turow è sicuramente una persona straordinaria. È un autore e un uomo che ammiro molto. Turow non ha mai pensato neanche dopo il suo grande successo di lasciare la professione».

Resterà fedele a questo genere?
«Ho già abbozzato un altro romanzo, una commedia sentimentale... Forse lo riscriverò. Ho in mente un'altra storia abbastanza "gialla" ma sarebbe un lavoro lungo. Mi piacciono le strutture architettoniche un po' complesse».

Questo era il primo romanzo?
«Sì, avevo scritto qualche racconto. Due settimane fa ho scritto una poesia per la prima volta in vita mia».

Ma "da grande" farà lo scrittore?
«Mi piacerebbe continuare a scrivere. Vedo che il libro sta piacendo a chi lo legge. E questa è la cosa più importante».

Soddisfatto della scelta compiuta?
«È importante, nella vita, provare a fare quello che veramente si sente dentro senza mortificare se stessi».

LA SCHEDA

Dal diritto ai libri passando per l'Africa

“Volevo dire delle cose che andavano al di là della mia esperienza lavorativa e raccontare la generazione cui appartengo”

Marco Bellotto è nato a Padova nel 1965. Ha giocato a rugby e ha frequentato il liceo classico Tito Livio. Nel '91 si è laureato in Giurisprudenza all'Università di Bologna, poi ha vinto un dottorato di diritto penale a Parma continuando la collaborazione con l'Ateneo del capoluogo emiliano. Dal '93 al 2000 ha esercitato l'attività di avvocato penalista, professione che ha lasciato nel maggio del 2000. Successivamente È andato per alcuni mesi in Ghana, dove ha operato in una missione dei padri comboniani, quindi ha svolto vari lavori prima di essere assunto in un'azienda che svolge consulenze per enti pubblici e imprese in materia di agevolazioni. E’ tornato a vivere a Montegrotto Terme. Nel giugno scorso ha pubblicato il suo primo romanzo: “Il diritto di non rispondere”, edito da Sironi, finalista al premio Calvino 2002. (c.g.)

“Il diritto di non rispondere” è stato pubblicato dall'editore Sironi

Una città, un delitto e tanti misteri

“Il diritto di non rispondere” (Sironi editore, p.p.347, 16,50 €), il legal thriller di cui è autore Marco Bellotto, è stato scoperto dallo scrittore padovano Giulio Mozzi, editor della Sironi. Ma quale è l'intreccio ideato da Bellotto che, secondo la critica, ha fatto tesoro della lezione dei grandi classici americani da Turow a Grisham? Ambientato nell'immaginaria città di Santamira - metafora di tante città del Nordest con la sua borghesia ignorante, fortemente conservatrice e legata alle tradizioni - il romanzo ruota intorno ad un omicidio, quello dell'imprenditore e onorevole Ottavio Vidali, l'uomo più in vista di Santamira. Il politico, specchio di tanti personaggi che popolano la nostra vita quotidiana, aveva organizzato una blindatissima ed esclusiva festa per il suo compleanno: un appuntamento che gli è stato fatale. Chi aveva interesse ad eliminarlo? Forse la figlia Chiara, la sospettata numero uno che finirà sul banco degli imputati? E perchè avrebbe ucciso quel padre cosÌ potente? Il romanzo di Bellotto non è solo un legal thriller, un intreccio destinato a sciogliersi in un'aula di giustizia. ”Il diritto di non rispondere” è anche altro. E’ una storia dall'impianto narrativo complesso che attraverso tre personaggi - il giornalista Sergio Ventura, il chirurgo Carlo Piromalli e l'avvocato Leo Colonnese - svela il “giallo”. E forse tanti altri enigmi mettendo in mostra quello che dovrebbe restare nel buio o nell'ombra. Colonnese incarna anche la crisi dell'avvocato Bellotto quando, dopo i 30 anni, scopre “di dover convivere con l'insensata durezza del processo penale. (c.g.)
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Testo riprodotto unicamente a scopo informativo.

L'universo accidentale
di Alan Lightman
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"L'idea fondamentale. Intervista a Fabio Toscano" di Carlo Silini, Corriere Ticino
"Il cervello geniale che valeva per due" di Giulia Villoresi, Il Venerdì di Repubblica
"Come funzionava la testa di Leonardo" di Giovanni Caprara, Sette, Corriere della sera

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R.E.A. MI 2017255
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