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Le illusioni tradite di una rock star clandestina
Fabrizio Ottaviani, Il Giornale, 26.07.2003
Silvio Bernelli ricorda i gruppi punk e hard core che negli anni ’80 sognavano l’America
“Giovani, belle, celebri, desiderate da tutte le donne e invidiate da tutti gli uomini, le rock star costituivano l’apice assoluto della gerarchia sociale. Niente nella storia umana, dopo la divinizzazione dei faraoni dell’antico Egitto, poteva compararsi al culto che la givoentù europea votava loro”.
Lo sperticato e implicitamente bilioso riconoscimento è di Houellebecq: l’autore delle Particelle elementari misura l’enorme ascendente delle star, ma sceglie male il termine di paragone. Contrapposti al monarca, al prete e alle leggi dello Stato, i cantanti rock sono piuttosto come i guerrieri per Dumézil: il contrario di un faraone o di un papa re. Qualsiasi tipo di banda è la metamorfosi di una macchina da guerra, e i suoi capi sono “più simili a una star che a un uomo di potere”. Alieni alla società (il loro successo è mondano, non sociale), le rock star appartengono a una fase prima superata, poi rimossa dal mondo occidentale, quella del nomadismo. Dominati, come gli eroi di Kleist, da un’onnipresente esteriorità, da una “successione infinita di catatonie e svenimenti, di folgorazioni e precipitazioni, il loro cammino li conduce a una morte prestigiosa ma senza potere”.
Ci siamo liberamente serviti di un celebre articolo di Gilles Deleuze e Félix Guattari, “La macchina da guerra”, per aprire con una chiave di lettura antropologica il libro di Silvio Bernelli pubblicato recentemente da Sironi: I ragazzi del Mucchio (pagg. 204, euro 11,50) è sia la cronaca sobriamente elegiaca della prima giovinezza dell’autore, bassista dei gruppi hard core Declino e Indigesti, sia un capitolo di storia del costume: negli anni ’80 chi si dedicava alla musica punk viveva e suonava così.
La scrittura di Bernelli attinge a una letteratura disciolta nelle cose, più che nelle parole, e intelligentemente tiene a freno la retorica on the road e il suo seguito di aneddoti spesso fin troppo prevedibili.
Si tratta di pagine utili per comprendere cosa c’è dietro il fenomeno, diffuso tra i giovanissimi, della formazione di rock band, del loro ascolto e della loro sorprendente attrattiva: l’opzione per una forma di vita radicalmente altra. Parlare di antagonismo, di stile di vita alternativo, di anticonformismo, serve solo a confondere le idee: siamo di fronte a un universo parallelo, che certo è parassitario della vita normale, ma che possiede un’innegabile autonomia e perennità.
In tale universo, per molti versi clandestino, si entra attraverso un deliberato processo di distacco dalle istituzioni. L’autore ricostruisce questo processo dall’interno, da protagonista: “Il messaggio di fondo era semplice: stai con i tuoi amici e ignora tutti gli altri ambienti. La famiglia, la scuola e il lavoro erano per le persone regolari: tutte quelle che non seguivano l’hard core”. La struttura delle band è fluida: musicisti ne escono ed entrano, e alcuni di loro appartengono a più di un gruppo.
Una volta raggiunta l’autonomia economica attraverso la musica, il cerchio tende a chiudersi, isolando ragazzi di vent’anni dal resto del mondo. Nessun concerto nella nativa Torino, dove l’incendio del cinema Statuto porta alla chiusura di decine di sale. E invece decine di date nel nord Italia, e d’Europa, a conferma del nemo propheta in patria. Fino all’ambitissimo successo nella Gerusalemme dell’hard core, l’America, dove gli emuli talentuosi daranno lezioni ai loro maestri.
Poi un giorno l’avventura volgerà al termine: ma se una notte Campanellino dovesse tornare a bussare alla finestra con il gonfio sacchetto di polvere siderale, scommettiamo che i ragazzi del Mucchio lo apriranno subito?
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Testo riprodotto unicamente a scopo informativo.

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