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Arminio, un paesologo in Irpina |
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Elio Paoloni, Corriere del Mezzogiorno, 04.06.2003 |
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Gli antropologi si vanno scoprendo letterati: citando Clifford Geertz (molti
scienziati sociali hanno abbandonato un ideale esplicativo fatto di leggi ed
esempi, cercando meno ciò che collega i pianeti ai pendoli e più ciò che
collega i crisantemi alle spade), Eugenio Imbriani (La scrittura infinita,
Besa 2002) riflette sull'etnografia che si propone come racconto.
L'antropologo come scrittore, insomma. Lo scrittore, per converso, è da
sempre un antropologo. Mi sembra del tutto naturale pensare ai grandi
scrittori, da Leopardi a Sciascia, da Pasolini a Malaparte, da Parise a La
Capria, come a degli antropologi. E come definire altrimenti Antonio Pascale
e Livio Romano?
Franco Arminio, anche lui scrittore meridionale, rivendica a pieno titolo la
qualifica. Respingerebbe tutt'al più l'aggettivo "meridionale": "Ma dove sta
questo Mezzogiorno? Il sud io non lo conosco. Conosco il mio paese e i paesi
vicini. E sono tutti diversi. I paesi sono come i fiocchi di neve: non ce ne
sono due uguali" sbottò a un Convegno napoletano sul Mezzogiorno. "Io sono
un paesologo. Il paesologo non è un erudito locale che sa tutti i nomi dei
signorotti che hanno dominato un paese" spiega " non somiglia allo storico o
allo psicologo, ma ai raccoglitori di funghi o di asparagi".
Non è la solita solfa del paese dei campanili: è che le connotazioni stesse
del meridione vengono meno se si procede caso per caso. Esempio: i
meridionali non hanno spirito di iniziativa. Verissimo, al mio paese. Ma
tredici chilometri più in là c'è Francavilla Fontana, paese di "marcanti":
principi della bancarella tra fiere e mercatini, ma anche titolari di decine
di negozi all'ingrosso, animatori del commercio ortofrutticolo delle
province vicine, inventori di traffici in ogni angolo del mondo. Dall'altro
lato, a nove chilometri, altra fucina di iniziative: Mesagne, capitale della
Sacra Corona. Si concentrano in quel paese decine di gruppi di fuoco:
efferatezza e determinazione che noi non possediamo. Sarà perchè il mio
paese sorge su terreni paludosi? Capuvierdi ci chiamano (germani reali) o
mangiafogghi, vegetariani senza nerbo. Dalle nostre parti corrono le rovine
di una minimuragliacinese, il "paretone dei greci": sei chilometri di
distanza e invece che bizantino ti ritrovi longobardo. Ma per le statistiche
siamo tutti della Puglia, una Cosa lunga quattrocento chilometri, che prima
almeno si diceva Le Puglie e uno si faceva un'idea. Fin qui stiamo parlando
di distanze considerevoli, annullate solo recentemente dalla modernità. Ben
più eclatante il caso degli "Aci": tra Aci Castello e Aci Trezza corre un
chilometro esatto (correva, perchè ormai le propaggini si sfiorano): ma se
parlate con Davide Arricò, il poeta che veglia sul Castiddazzu, vi dirà che
quelli di Aci Trezza hanno un atteggiamento incomprensibile. E, opinioni a
parte, non si capisce perchè lœ resista una comunità di pescatori e a meno
di un miglio, in un Aci Castello lambita dallo stesso mare, no.
Franco Arminio ha raccolto le risultanze del suo mestiere di paesologo in
"Viaggio nel cratere", libro perfettamente collocato nella collana
Indicativo Presente (l'Italia com'è) della Sironi. Il cratere, principale
oggetto dell'investigazione, è l'Irpinia visitata dal terremoto. Arminio,
che ama abbandonarsi ai paesi più che agli uomini, non è un turista: "Sto
qui per soffrire in un modo diverso da quello che mi accade nella ceralacca
del mio paese". Ma si vieta rigorosamente retorica e nostalgia: "E' falso
pensare a questi luoghi come presepi in cui tutti erano più buoni e più
contenti". Arminio percorre paesi dove il terremoto ha lasciato crepacci e
paesi che lamentano solo scalfitture, paesi rimessi su in maniera decente
(pochissimi) e paesi ri-distrutti dalla ri-costruzione, paesi stravolti e
paesi "sobri e semplici come una sedia", paesi dove si parla a gola spiegata
e paesi dove si bisbiglia. Ascolta con partecipazione i sussurri e le grida
ma è stufo di accettare la vulgata secondo la quale quella terra "sarebbe
stata stravolta da un manipolo di malvagi, famelici di soldi e di voti".
Preferisce pensare che "abbiano fatto quel che sapevano fare, e ciò era
perfettamente corrispondente a quello che pensava la gran parte della
gente". Ricorda a chi si lamenta per la scomparsa del "passeggio" che non si
trattava di cosa molto amena: "Si pestava la strada, ci si macerava
nell'attesa di quel che non veniva mai. si passeggiava perchè non c'erano le
macchine e non si sapeva dove andare. tutti in strada, avanti e indietro
come carcerati". E' la vita ben descritta da Lina Wertmuller ne "I
basilischi": cosa c'è da averne nostalgia? E poi "non è colpa dei tanti che
hanno preso i soldi e sono scappati se quelli che sono rimasti non escono e
preferiscono gli schiamazzi dello schermo televisivo".
Per descrivere quei posti è forse necessario inventarsi una lingua, come
pare abbia fatto un folle poeta di Guardia Lombardi dal nome inverosimile e
programmatico, il Felice Fischietti delle "vantose cose e tortuose vie
zertiche e ebrose". Ma il poeta Arminio, fattosi anatomopatologo, si è
preoccupato di raffreddare lo sguardo, di compilare i referti con prosa
livida senza partecipare, quasi senza scegliere gli elementi. Sembra che il
passaggio alla prosa abbia inibito non solo il lirismo ma anche ogni
approfondimento. Quando al poeta è permesso di riaffiorare, ecco immagini
memorabili come quella delle pietre da costruzione o da rivestimento che una
volta "venivano buttate per lapidare il passato", mentre nella sezione
Passaggi brevi ritroviamo l'Arminio aforista del bollettino Altofragile.
C'è un termine chiave nei resoconti arminiani: adiacenza. Da un lato è
colpito, in un paese, dalla "tranquilla e indifferente adiacenza tra i
giovani che videogiocano e il quartetto di anziani impegnati in una
briscola". Dall'altro (ogni paese è un mondo a sè, rammentate, non si può
generalizzare) vede in un isolato edificio municipale "il simbolo
dell'intolleranza all'adiacenza". Non c'è vera contraddizione, in realtà.
Qui (non qui nel Sud: qui nel mondo) tutto si gioca tra i poli
dell'indifferenza e dell'intolleranza all'adiacenza. Continuità,
integrazione, mescolanza? Non siamo ancora attrezzati. Se proprio ci va
bene, si può giacere vicini.
Per un opera concepita come elogio della differenza - un'investigazione
sull'unicità che si fa catastale nelle Appendici - quello che a volte sembra
mancare sono proprio le differenze. Può succedere cosœ che leggendo tutte di
seguito queste perizie (molte delle quali già apparse sui quotidiani) si
venga colti da una leggera sensazione di noia (come capita anche, del resto,
con le fin troppo celebrate elencazioni patagoniche di Chatwin), o che,
quando alcune differenze vengono sbandierate, ci si trovi a chiedersi quanto
l'attribuzione di "un'aria migliore" a "quel" paese dipenda dai bioritmi
dell'autore.
Ma alla fine, nelle Postille di paesologia, arrivano le conclusioni,
puntuali e puntute: brani come I paesi della cicuta, Il galateo del rancore,
Globale o rurale? sforacchiano lo smog delle ovvietà come fari allo xenon.
Con l'aria di limitarsi a rispolverare il "tutto il mondo è paese", Arminio
scombussola parecchie comode categorie. Non solo gusto del paradosso, non
solo arguzia (paesana?): non basta stare appollaiati sulle alture all'aria
fina per cogliere quello che è sotto gli occhi di tutti ma nessuno vuol
vedere. Occorre spessore, occorre immaginazione. |
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