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Un cortocircuito trova posto nel caos
Giovanni Choukhadarian, Stilos, 13.05.2003
Non si è mai visto in Italia un romanzo come “Il suicidio di Angela B.” di Umberto Casadei (all’estero, vengono in mente le “Perizie” di William Gaddis, “Rayuela” di Cortazar, “L’assassino cieco” di Margaret Atwood e “Come tanti cavalli” di Luiz Ruffato, appena tradotto da Francesco Bevivino editore). Nessuno ha mai messo in scena un universo insieme così piccolo e così complicato, dando voce a tanti personaggi e usando tante lingue diverse. Dalla tragedia di un’adolescente del Triveneto, Casadei trae una vera e propria opera-mondo, come quelle che ha spiegato Franco Moretti. Casadei ha 36 anni, ma dà voce a 17enni e 50enni tutti ugualmente credibili. Scolari, professori, editor, psicologi, giornalisti: in questa polifonia assordante lo spazio più grande è quello riservato al silenzio dei personaggi, che s’incrociano e non si conoscono. Alla fine, sembra che tutti perdano, i morti e i rimasti in vita. Ma forse non è così, e di sicuro Umberto Casadei non ha morali facili da vendere. Salvo errori di prospettiva, “Il suicidio di Angela B.” è un capolavoro.

1) Il suicidio di Angela B. è un romanzo sulla verità?
Al limite, sul rapporto fra verità e parola. Meglio: parola scritta, cioè prodotta. L'autore principale del romanzo si sforza in effetti di dire la verità, ma la saponetta schizza e più lui s'impegna, più sprofonda nell'incubo, appunto, di questa produzione (produrre anche nel senso di esibire). Prendendone coscienza viene a fare i conti con la falsificazione, il limite, la superficie, in definitiva con la parzialità della forma. Tutto secondo una disperante dialettica di scatenamenti e assunzioni di responsabilità a scatenamento compiuto, rispetto alle quali si sente sempre meno adeguato. In ultima istanza, dare forma, trovare forma, comporre, per Gianni, non significa risolvere: la soluzione, infatti, per lui é sempre immaginaria - nel senso dell'invenzione, così come nel senso dell'illusorietà (dell'allucinazione collettiva, per esempio, in cui vede irretita la sua famiglia). Cioè non vera - a meno che la verità non dimori, appunto, nell'immaginazione. Da un certo momento in poi, Gianni sente che ciò che sta formando procede secondo le disposizioni di un codice. Il problema sta nell'individuarlo quindi nell'interpretarlo - eventualmente trasgredirlo, addirittura ignorarlo. Qui però c'è una crisi. Un cortocircuito. Una separazione: l'intenzione di Gianni diverge oggettivamente dal codice secondo il quale la forma da lui fin qui concepita chiede di essere effettivamente condotta a compimento; e d'altronde se Gianni vuole comunicare con la professoressa che ha eletto a interlocutore, sperando di suscitare in lei uno stato d'animo particolare, poiché, come gli capita di dire, "la forma è per gli altri", la deve accettare (la separazione). Rimane il fatto che sebbene a questo livello Gianni ormai lavori - davvero!: lavori - attorno a una sorta di trappola cognitiva che gli pare tragicamente altro dal mondo e dalla vita (arriverà a immaginare che quel che tiene insieme una pagina riuscita sia ciò che disgrega la vita), attraverso questa stessa esperienza, che, con le sue ricchezze e miserie, in fondo, è l'esperienza del narrare, avrà tentato di aprire un varco e di trovare un suo posto nel caos.

2) Perché hai scelto di giustapporre tanti punti di vista?
Volevo veicolare una molteplicità di istanze che mi abitano e condizionano, che sono me stesso e sono le persone che amo, che in me, tuttavia, spesso non trovano conciliazione. Stavo molto male per questo, e portavo dentro molta rabbia. Volevo comunicarla, metterla lì, fuori. Farla asciugare, essiccare, candire, senza ferirmi e senza ferire nessuno. Mi pareva, inoltre, che un singolo punto di vista non mi permettesse di afferrare la realtà sociale nella sua paradossale complessità (relativismo di massa, individualismo emotivista, omologazione differenziata). Inoltre, quello stesso singolo punto di vista, appunto perché elevato a smisurata altezza, pensavo, mi avrebbe impedito di vedere le cose come le vedono, in effetti, i comuni mortali (che onniscienti non sono). Mettiamola cosi: alle mie spalle c'era un romanzo abortito di oltre seicento pagine, narrate in terza persona; diciamo che avevo avuto problemi di "consenso". Da un certo punto in poi, il caos penetrato in quelle pagine, un caos per altro realissimo, vi era cresciuto in modo esponenziale. Non ero riuscito a costruire una retorica in grado di dirimerlo, mediarlo, farlo convergere. Molti degli ammiccamenti, degli scherzi, delle puerilità presenti nel Suicidio, sono una spia, una difesa, quasi, un ludico, metanarrativo chiedovènia, rappresentano insomma la cifra di un colossale fallimento in corso. Avevo iniziato con la scrittura di P.G. Izza. Non ne ero soddisfatto. Mi imponeva di procedere lentamente, una frase al giorno, per così dire. Di scartare un sacco di cose. E io, invece, pur lungi dall'avere elaborato un qualche progetto, ero in subbuglio. Volevo volevo volevo. Così ho inventato un'altra scrittura, quella di Gianni. Volevo che avesse una grande capacità di portata, che vi si potesse rovesciare dentro di tutto, che mi permettesse di fare esperimenti, che si configurasse quasi come un campo da gioco, che potesse fare chilometri. Ma per fare chilometri in effetti ci vogliono i chilometri da fare, cioè spazio, cioè mondo. Ho fermato Gianni. L'ho parcheggiato un attimo e per evitare di fargli dire cose che non poteva logicamente dire mi sono messo a fabbricargli un mondo attorno, cercando di fare in modo che questo mondo non fosse distante dal mio quanto la Terra di Mezzo, la Cimmeria, o New York. Seguitavo in ogni modo a produrre voci in prima persona, singolarità intensificate, che nascevano nella maggior parte dei casi come tentativi di risposta a problematiche che non ero in grado di illustrare, o esaurire, da uno specifico angolo visuale, e che parlassero, o meglio, calzassero alcuni dei tanti discorsi che sovrascrivono la realtà in cui viviamo.

3) Quanto hai impiegato a scriverlo?
Ci ho messo tre anni. Naturalmente, con molte pause. Ho iniziato nel marzo 2000, e l'ultima revisione delle bozze è del marzo 2003.

4) La postfazione dell'editor Rinaldo Qualcosa esprime la tua opinione?
Rinaldo, nella postfazione, manifesta diverse opinioni. Che sono in effetti mie opinioni. Sta di fatto che io cambio opinione abbastanza spesso, o, insomma, con le mie opinioni ho un rapporto piuttosto conflittuale. Diciamo che ciò che Rinaldo esprime, specie verso la fine, quando immagina la forma come traccia di un movimento che trascende l'incommensurabilità certificata dai testi dei differenti autori, conferendo al loro esser-ci un minimo di senso (che senso abbiamo isolatamente intesi?), o prima, quando afferma che per mettere insieme una storia che sia effettivamente una storia e non, al meglio, una geografia, sembrano necessarie un'ingenuità e una passionalità romantiche, mi sta a cuore; quella di Rinaldo - un malato terminale di AIDS che fino all'ultimo ha negato la sua malattia, a sé oltre che agli altri - è una contraddittoria meditazione attorno ai rovelli di ordine esistenziale e cognitivo insorti nella scrittura di Gianni, su ciò che ci tiene assieme, sulla pace possibile, e sulla bellezza di un'amicizia intellettuale.

5) Il suicidio è un libro sulla vita o sulla morte?
Gesù. Sull'una e sull'altra. Sul fatto che l'una e l'altra sembrano sempre così lontane - fra loro, e da noi. Sul fatto che non si vive, eppure si muore, e quando si muore non si sa che cazzo stia succedendo. Figurarsi perché.

6) E' possibile che la famiglia di Gianni Dezanni assomigli un po' a quella di American beauty (il film con Mena Suvari, Kevin Spacey e Thora Birch?)
Una mamma titolare indiscussa della rappresentazione sociale dominante, oltre che un padre gigione, portatore di un contro-ordine, altrettanto "precotto". Poi il figlio, Gianni, così rovinosamente incapace d'amore (quantomeno filiale, ma non solo). La pochezza di tutto, l'inconsistenza di ogni discorso. La superficie liscia, lustra, allestita, della casa-specchio. L'unica salvezza possibile, quella delle Apparenze - peccato che uccidano. Eppure c'è qualcosa di diverso, che riguarda il desiderio. Perché la bella signora, fino a un certo punto, riesce a ordinare attorno a sé un paradossale meccanismo di fruizione sessuale, e non di castrazione. Come? Attraverso finzioni e autoconvinzioni in grado fronteggiare la mutevolezza del desiderio, fissandolo, nel tempo, sulla stessa persona. Che il marito, come in American Beauty, corra dietro alle ragazzine, le serve a erotizzare il marito stesso. La scena clou di quel film (l'impossibilità di farsi la ragazzina, in quanto, appunto, ragazzina) è metabolizzata al punto che il senso del suo ripetersi non può consistere che nella consapevolezza di questo ripetersi da parte della bellissima moglie. Sul versante del marito, la desiderabilità prosternante di lei, sosia della Bellucci, è evidente. Venendo a piena maturità, però, l'unico oggetto di desiderio della signora diviene la signora stessa - "io sono il mondo", infatti, afferma - , e che Filippo faccia il cicisbeo, ahimè, non serve più. Viceversa, lei, agli occhi di lui, diviene un demone sessuale. Sarà il marito, di conseguenza, l'ultimo inconsolabile fautore di un'unità-demone famigliare-idolo disperatamente pensata non come estintore del desiderio, ma come braciere. Che lui, in realtà, sia impotente, e che lei, in realtà, sia frigida, serve ad alludere, in modo grottesco (devo difendermi), alla qualità allucinatoria, filmica, irreale, insomma di fiction che possiedono le perversioni attraverso le quali la libido-demone regga la famiglia-idolo. Non sono sicuro di esserci riuscito, in effetti: non c'è nessuno, fra gli autori del Suicidio, che, logicamente, possa, riesca, abbia un tornaconto nel fare un discorso del genere. Nemmeno l'Artefice. Questa sarebbe stata una dissertazione da Onnisciente. Il sottoscritto onnisciente autoescluso, ahimè, non ce l'ha fatta. Ha pallidamente alluso, niente di più. Ma un po' la perversione si sente, e in questa prospettiva non so se qui siamo, o saremmo stati, dalle parti di American Beauty. Ci sono retaggi diversi, dal punto di vista del desiderio: il Veneto è pur sempre l'ex balena bianca e benché in materia di scambio di coppie sia secondo soltanto alla Lombardia, la famiglia resta saldamente al top della hit del sacro.

7) Fossero veri, chi avresti amato, dei tuoi personaggi? E con chi non avresti legato?
Ahimè. Basta che apra la porta della stanza e sono tutti qui. Cosa vuoi che ti dica?




(se l'universo è pluridimensionale, qual è la sua superficie?)
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L'universo accidentale
di Alan Lightman
Galápagos
"L'idea fondamentale. Intervista a Fabio Toscano" di Carlo Silini, Corriere Ticino
"Il cervello geniale che valeva per due" di Giulia Villoresi, Il Venerdì di Repubblica
"Come funzionava la testa di Leonardo" di Giovanni Caprara, Sette, Corriere della sera

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